Tagliacozzo. “Una musica suonata quando hai vent’anni, risuonata a quaranta o più, è la stessa musica ; eppure è differente, come nuova”. Così ha affermato il noto jazzista, Riccardo Del Fra, che qualche settimana fa si esibiva nel chiostro di San Francesco di Tagliacozzo, all’interno del programma del Festival di Mezz’Estate. Riccardo non è nuovo da queste parti. I suoi genitori sono originari di Tufo (a Carsoli) e già in passato il musicista aveva visitato la cittadina. La passione per la musica lo ha allontanato dall’Italia verso la Francia, dove ha conosciuto il suo più grande collega a Parigi, un mito per gli amanti del Jazz, il noto Chet Baker. Chet era un classico delle star musicali, con un passato immerso tra successo, droga, donne a anche la prigione. Del Fra lo conobbe nel momento della sua rinascita, negli anni ’80. A trent’anni da quella lontana e fondamentale esperienza, il jazzista ha scritto un nuovo disco, che definisce “un vento dolce, ma ostinato che fa girare le pagine”. My Chet My Song è l’album con il quale Riccardo ha intrattenuto piacevolmente il pubblico del Festival, insieme al suo quintetto orchestrale. Prima della sua esibizione, ci siamo accomodati nel suo stanzino e abbiamo avuto modo di approfondire il suo ricco percorso musicale, pieno di metamorfosi.
Un incontro che le ha cambiato la vita. In che occasione ha conosciuto Chet Baker?
Eravamo partiti con la musica per strada: io, Maurizio Gianmarco e Roberto Gatto eravamo in giro per l’Europa, in Svezia, Germania e poi in Francia. Era la fine degli anni ‘70. Insieme a loro conobbi Chet Baker, a Parigi. Lui mi chiese di restare, e nel frangente avevo conosciuto la mia compagna proprio lì nella capitale francese.
Cominciai a viaggiare tra Roma e Parigi. Con Chet, vanto più di 8 anni in giro per il mondo tra strada e concerti, la produzione di 12 album e qualche film. Una storia un po’ romanesca la sua, successo da giovane, con alti e bassi tra droga, donne e prigione. Ho assistito alla sua rinascita, dove Chet scoprì un nuovo sound, una musica nuova e moderna che artisticamente parlando era eccezionale. Nessuna routine, ma creatività.
Un episodio di quel percorso musicale che le è rimasto particolarmente impresso. Sicuramente il primo concerto in Giappone. Le leggi giapponesi proibivano l’accesso e l’esibizione a coloro che erano stati in prigione, per cui Chet non poteva suonare lì. Quando poi la legge cambiò, potemmo andare. C’era gente che lo aspettava da trent’anni. Quello è stato uno dei concerti più intensi, ricordo i teatri pieni e un’emozione decisamente particolare e viva.
Post Chet. Com’è stato il suo percorso negli anni ’90? Dopo la morte di Chet, ho avuto bisogno di un momento di riflessione. Negli anni ’90 iniziai con la pratica della musica contemporanea ed ho studiato composizione con artisti e studiosi francesi. Ho avuto la possibilità di scrivere delle opere con un sound misto, stilando progetti un po’ ibridi. È stato il momento in cui ho iniziato a variare genere. Dieci anni dopo, nel Conservatorio Nazionale di Parigi, mi è stata proposta la cattedra come dirigente del dipartimento Jazz. Mi entusiasmava l’idea di far parte di questa nobile istituzione. Proponevo progetti sempre più melodici, tra classico e contemporaneo e ancora oggi ho la possibilità di utilizzare la mia creatività per integrare artisti e studenti di alto livello.
Parliamo di questo nuovo progetto. My Chet, my Song. Un richiamo o un superamento del passato?
Quando ho voluto fare il disco, mi hanno subito proposto di registrare. Voglio sottolineare che l’omaggio come esercizio di stile è una cosa da scuola. “My Chet, my song” non è un omaggio alla musica di Chet, ma è la mia storia con Chet. La mia musica, la mia storia. Quel famoso brano “My Funny Valentine”, che ho suonato con lui centinaia di volte, non posso suonarlo come lo suonavo allora. Molti non riconosceranno alcuni brani. Tuttavia quel tempo passato, è diventato un pensare, un modo di fare musica. Come se fossero brani nuovi. Per cui è un’ispirazione. Un segno definitivo del passaggio di Chet e il superamento. Conosco gente che ha suonato con lui che cerca ancora gli stessi suoni. Io non posso. Voglio qualcosa di nuovo, sarà stato il cinema, la musica contemporanea. Al di là di queste esperienze musicali, è anche il lato di vita, il vissuto. Quello che dice il sassofono è un testo nella mia mente. Un messaggio di poesia con una certa apertura, chiave del rinnovamento.
Il Jazz tra l’Italia e la Francia. Ho avuto sempre il privilegio di viaggiare, oltre la Francia sono spesso in Svezia e anche in Germania e posso dire che il Jazz ha un linguaggio universale. Le sue radici nascono da un incontro tipicamente sincretico tra l’Africa e l’Europa, in un posto diverso negli Usa. In solo un secolo dalla nascita, quanti stili e quante ramificazioni che ha avuto Jazz. Un sincretismo musicale che ancora oggi non si è fermato. Non bisogna chiudere le porte, ma è propria del Jazz l’apertura verso altri mondi che possono portare nuove cose.
Tra poco salirà sul palco, proprio qui, vicino al paese delle sue radici. Che emozioni prova Sinceramente, è una tappa molto emotiva. Sono molto felice di essere nella città dove nella mia gioventù spesso venivo a degustarmi un gelato. Conosco di fama questo Festival e sono molto onorato di far parte della programmazione di quest’anno. Un festival pluri-disciplinare, multi stilistico, come in qualche modo cerca di essere la mia musica. Sicuramente, una grande emozione è il poter partecipare insieme a Maurizio di Gianmarco. Con lui ho conosciuto Chet. E stasera, insieme a lui, suonerò i brani di questo mio nuovo album che segna il passaggio di quel passato, aggiungendo inoltre un omaggio anche alla musica italiana, con Estate di Bruno Martino…