Alba Fucens. Non basterebbe una vita intera per raccontare la carriera di Mogol. Questo è il punto di partenza da tenere in considerazione se si vuole approfondire il percorso artistico di colui che, giustamente e inevitabilmente, è considerato il padre della musica leggera italiana degli ultimi sessanta anni. Poeta, scrittore, narratore e avventuriero, Giulio Rapetti è stato tutto questo e anche di più. Protagonista di alcune tra le pagine più belle della canzone tricolore, ha fatto innamorare, commuovere, appassionare e sognare intere generazioni. Domani si esibirà sul palco di Festiv’Alba con “Mogol racconta Mogol”, dove, microfono alla mano, si racconterà al suo pubblico, lo stesso che dopo sei decadi continua ad amarlo incondizionatamente.
Come è nata l’idea di questo tour celebrativo?
C’è ancora molta richiesta per le canzoni che portiamo sul palco. Le persone hanno nostalgia di quegli anni e del significato di quei brani che, anche a distanza di anni, piacciono a tutti. Li vogliono cantare, riascoltare e riscoprire. Ciò che oggi è prodotto è indirizzato a un pubblico di giovanissimi e veicolato attraverso il web, il che è notevolmente diverso. La gente avverte la mancanza di pezzi destinati a restare impressi nel tempo. Ho avuto la fortuna di scrivere e collaborare con molti compositori di talento. Anche questo va detto.
Nel 1959 fece per iscriversi alla Siae, ma la scelta circa il nome da registrare non fu semplice…
E’ vero, si. Ricordo benissimo che mandai trenta nomi ma nessuno di questi fu ritenuto adatto. Allora ne mandai altri centoventi. Fu scelto Mogol. A essere sincero fino in fondo, però, lì per lì non fui assolutamente contento. Non posso negare che devo la mia fortuna anche a questo nome, facilmente memorizzabile e che mi ha accompagnato durante questi sessanta anni di carriera. Si è rivelata la scelta giusta.
Quanto era forte in lei il desiderio di esprimere e raccontare le sue emozioni?
Ho iniziato a lavorare in questo ambito che ero ragazzo e muovevo i primi passi in una casa editrice. Venivo retribuito con 5.000 lire a canzone, l’equivalente di 2.50 euro di ora. Ho fatto esperienza e avuto la possibilità di sviluppare automatismi artistici. La terza canzone che ho scritto, “Al di La”, ha vinto Sanremo nel 1961. E’ stato il primo di quattro trionfi al festival. Da lì in avanti è stato solo un susseguirsi di successi. Il brano che, però, vendette di più in assoluto fu “Una lacrima sul viso” di Bobbi Solo. Per Sanremo fu sfortunato perché gli andò via la voce e fu costretto a esibirsi in playback. Questo cambiò le cose.
Si può comporre musica senza avere qualcosa da dire?
La composizione della musica è affidata al musicista, ma l’autore deve carpirne il senso, identificarla frase per frase, individuare cosa sta dicendo e cosa vuole esprimere. Ed è ciò che cerco di fare. Prima si parte dalla frase importante, poi mi concentro sul testo servendomi della mia esperienza personale, della mia vita vissuta. Non faccio marketing ma incentro tutto sulla mia esperienza di vita e sull’aderenza con essa. Ed è anche naturale, perché è ciò che la gente percepisce come qualcosa di reale o meno.
Gran parte della sua carriera è legata a Lucio Battisti. Come avvenne il vostro primo incontro? Cosa la colpì di lui?
Ci fece conoscere una giornalista francese, Christine Leroux, che arrivò direttamente da Parigi dicendo di avere sotto mano un nuovo, interessante, artista. Diventammo amici e mi parlò di questo ragazzo di cui mi fece sentire due canzoni. Io, che sono abituato a dire sempre la verità, affermai che non fossero granché. Lui fece un sorriso e svelò di essere d’accordo con me. Rimasi stupito dalla sincerità ma pensai che il ragazzo avesse un’interessante capacità critica. E poi ero a disagio perché avevo gelato due persone che, pur avendo scritto male dei pezzi, erano veramente entusiaste. Gli parlai per offrirgli la possibilità di scrivere due brani per mitigare questo rapporto iniziato in modo così particolare. La terza canzone fu “29 settembre”. Da quel giorno ho scritto più di 150 successi e venduto nel mondo una quantità di dischi incredibile. Ho fatto più volte ricontrollare quei numeri che al giorno d’oggi sono irreali. Giusto i più grandi della musica americana possono vantarli.
C’è qualcosa del vostro rapporto che non è stato descritto ma che, invece, ha avuto un ruolo essenziale nella vostra amicizia?
Ci stimavano vicendevolmente appieno e si, eravamo anche amici. La cosa più importate è stata la qualità di ciò che lui scriveva e che io sviluppavo con parole che davano senso alla musica composta. Era un lavoro a due. Io sono dedito alle materie letterarie, mentre lui era un matematico. Due modi diversi, quindi, lui orizzontale e io verticale.
Quanto le manca?
Molto, anche come persona. Era tanto ironico e pacioso, nonostante da fuori non sembrasse. Col tempo, anche per via di fatti personali, non sopportava più l’intrusione nella sua sfera privata. Era molto introverso, non parlava di sé stesso. Era un po’ chiuso, ecco.
La dimensione di Battisti era solo quella nazionale? Avrebbe potuto sconfinare, secondo lei?
Certo. Rifiutò un contratto dal produttore dei Beatles. Fu proprio Paul McCartney a presentarlo con sincero interesse. Un giorno venne un giornalista statunitense e disse che Paul aveva tutti i dischi registrati dalla coppia Mogol-Battisti. Fu veramente un bel momento, molto gratificante. Ma Lucio rifiutò di uscire fuori dall’Italia. Più che scelta, forse, non capì realmente il valore e il significato di quel contratto. Gli dissi che perdeva una chance incredibile. Ma lui era deciso. Forse è stato mal consigliato.
Fra gli altri ha collaborato, se pur per breve tempo, con Luigi Tenco e Rino Gaetano. Che ricordo ha di loro?
Con tutti e due ho scritto solo una canzone, come spesso mi capitava. E’ accaduto, ad esempio, anche con la PFM per “Impressioni di settembre”. Con Tenco ho fatto “Se stasera sono qui”, grandissimo successo. Rino era un mio amico, veniva sempre a trovarmi, aveva un grande stima di me e ricordo con piacere la sua verve giovanile. Si presentò con questa canzone, “Resta vile maschio dove vai”, un po’ da matti, come lui era realmente. Due grandi artisti, indubbiamente.
La generazione italiana che si è esibita negli anni 60/70 è davvero inimitabile?
Molto importante lo è stata di sicuro. Tutta la musica italiana ha conosciuto vette di livello mondiale. Il problema è che l’avvento della tecnologia ha cambiato tutto e purtroppo la produzione è ora indirizzata ai ragazzi, scritta da loro per loro. Ecco il problema. Il web è l‘unico terreno per la promozione libera che, però, non indirizza più verso la scelta finalizzata al meglio. E’ un mercato congestionato perché tutti hanno la possibilità di ascoltare, certamente, ma è rivolto a un pubblico estremamente giovane che, quindi, si comporta come tale, con tutti i limiti della gioventù. E’ cambiato lo standard e il modo di comporre, così come le proposte musicali. Possiamo ritenerlo figlio dell’evoluzione o, a seconda dei punti di vista, dell’involuzione. Fate un po’ voi…
Quale è il reale stato di salute del mercato discografico italiano?
E’ morto (ride, ndr). La discografia non vive più, basta guardare le vendite di dischi. Prima erano milioni e ora si raggiunge il disco di platino con sole 20.000 copie. E poi i talent, che cosa dovremmo dire, si commentano da soli. C’è poco da aggiungere, sono spettacoli non scuole. C’è solo una scuola importante in Italia: il CET.
Quindi il talento non è l’unico fattore necessario per emergere?
Vi è talento ma il problema è semplice: la promozione, se arriva dal web, è veicolata da giovanissimi. E il web chi lo ascolta? I giovani. E’ un cerchio chiuso, non vi è una selezione di tutto ciò che si scrive con la conseguente possibilità di scegliere solo il meglio tra ciò che viene proposto. Questo provoca aridità sulle grandi canzoni. Ad esempio c’è un mio allievo, Giammarco Carroccia, che dal vivo fa grandi numeri. E’ richiesto, ma canta le canzoni che ho scritto con Battisti o la selezione di quelle che ho scritto con Gianni Bella. Ma lui è molto talentuoso, insieme faremo grandi cose. Gli ho consigliato di scrivere sue canzoni. E’ la gente a veicolare la qualità, non il critico. Lo scandalo è che non si paghi il diritto d’autore che riguarda centomila creativi che guadagnano meno di mille euro senza contributi. E’ giusto che le grandi piattaforme facciano numeri sulle spalle degli altri? Questo è il vero scandalo.
Dopo questi sessanta anni di carriera, quale è l’eredità che Mogol lascia all’Italia?
La scuola che ho creato, che mi è costata di più. Ho dedicato la mia vita a questa scuola con annessa cittadella della cultura. Non ho mai preteso un euro in 28 anni di docenza, ma ho sempre pagato tutto con le mie donazioni. Sto ricostruendo la cultura popolare in Italia. Questo mi è riconosciuto e spero che questo possa restare.
Ci sarà mai un nuovo mogol?
Date un ascolto a Giuseppe Anastasi e alla sua “Ricominciare”. Vi commuoverete.