Avezzano. Un viavai di volti, parole, odori. Ogni giorno quello della stazione è un mondo veloce, sfocato, che passa davanti ai nostri occhi senza che sia possibile fermarlo e esaminarlo nei particolari: c’è sempre qualcosa che sfugge, dei passi frettolosi, un discorso colto a metà, un odore appena accennato e subito confuso tra gli altri. Eppure all’alba la stazione sembra un altro luogo: tutto è immobile, come sospeso nella luce quasi bianca del primo mattino, che rende sempre tutto così pulito. A rompere il silenzio soltanto i primi annunci dei treni, seguiti dopo qualche minuto dal loro sferragliare sui binari. Un’altra giornata è iniziata: sulle banchine si riversano i primi pendolari; un uomo in giacca, cravatta e ventiquattrore guarda l’orologio mentre si dirige a passo svelto verso il binario; un ragazzo dall’aria a metà tra l’assonnato e lo stupito, di qualcuno che è nuovo al mondo del lavoro, entra nel bar; una donna di mezz’età, il viso stanco e i capelli legati frettolosamente, in piedi vicino all’ingresso, continua a controllare con impazienza a destra e a sinistra il piazzale deserto. Lo stesso che, da lì a poche ore, diventa affollatissimo: c’è chi cerca un orario in bacheca, chi chiede informazioni, e soprattutto ci sono i ragazzi, che riempiono l’interno e l’esterno della stazione con un fiume colorato. Brandelli di conversazioni su questo o quel professore, sulle interrogazioni e i compiti che anche oggi si abbatteranno funesti su ogni classe, richiami e urla di saluto che si accompagnano allo scatto degli accendini che accendono la prima sigaretta della giornata. Regna una confusione di suoni e odori, dall’immancabile sigaretta all’asfalto umido dopo il freddo pungente della notte appena trascorsa, tutti con lo sguardo fisso sul cellulare, scrivono laboriosamente e ricevono messaggi. Odori che i ragazzi sembrano portarsi via man mano che si avviano a passo lento verso le scuole, mentre nel piazzale rimangono solo quelli che per oggi hanno deciso di prendersi il giorno libero, che si raccolgono nel bar e occupano in pianta stabile il biliardino. Tra il rumore secco della pallina che rimbalza e il grattare delle sedie trascinate un po’ ovunque sopraggiungono anche altri ragazzi più grandi, che si uniscono ai “fuggitivi”; tanti sono stranieri, che si avvicinano e salutano battendo il cinque o il pugno. È a tutti gli effetti un mondo parallelo molto più veloce e vario della città, staccata, caratteristica che rende questo posto una sorta di regno per gli adolescenti che si sentono protetti e invisibili quindi liberi di infrangere qualche regola, andare oltre qualche schema soddisfacendo quel bisogno giovanile di sentirsi parte di “qualcos’altro”. Più avanti nella giornata sembra di osservare un nastro che si riavvolge: il fiume dei ragazzi scende dove la mattina saliva, e gli autobus che arrivavano partono. Commenti sulla mattinata, aspettative sul pomeriggio, stralci di dialoghi colti mentre la folla va a raccogliersi nel piazzale, allargandosi diligentemente durante la discesa in corrispondenza della stazione di polizia, perché sotto alla scritta non si passa “ché porta sfiga”. Il pomeriggio scorre, mentre sul palco della stazione si avvicendano altri interpreti: viaggiatori capitati per caso, magari di passaggio tra una grande città e l’altra, personaggi pittoreschi che della stazione fanno la loro “base”, uomini, donne e bambini che salgono e scendono dagli autobus diretti e provenienti da tanti paesi, soprattutto est europei e nord africani. Bus pieni di speranze, di volti vogliosi di ricominciare, ripartire, magari proprio da lì, in un posto così lontano, così diverso, da quella stazione che forse per una notte o più sarà il loro letto, la loro casa. Un caos che è destinato a scemare durante la giornata, i viavai degli autobus che in mattinata solcavano il flusso di studenti che scendevano controcorrente e invadevano piazzale Kennedy diminuisce inesorabilmente, le attività commerciali che la circondano abbassano le saracinesche, la notte torna immobile, ma non è la stessa immobilità della mattina. A questo punto il contorno della loro notte potrebbe essere un paesaggio semi-desertico, silenzioso, noioso con la monotonia di un paesaggio di De Chirico rotta forse da qualche annuncio dall’altoparlante o dall’intermittenza del neon di questo o quel lampione. I pochi attori della notte sono quelli che la rendono per molti un posto poco rassicurante, come nel più classico degli stereotipi. Fa rabbia pensare che tutto ciò accade nel caso della nostra città proprio a pochi metri dalla stazione di polizia. Questa però è un’altra storia, ci teniamo però a mostrare come esista nella città un posto poco considerato da tutti, ma che in realtà è in grado con la sua polisemia di cambiare completamente faccia nel giro di una manciata di ore, un punto di incontro e mescolanza di persone e realtà completamente diverse. Sarà infatti di nuovo la luce dell’alba a rendere ancora una volta tutto pulito, precludendo alla frenesia della giornata, a un nuovo mescolarsi di persone e parole. La stazione è l’emblema di una società varia e composita, vittima di un movimento inarrestabile che riesce a mescolare le giornate di tutti noi. La stazione che riesce a unire le giornate di tutti noi per poi ridividerle con binari diversi destinati a perdersi per tutta la Marsica e oltre. La stazione è un mondo di transito, un limbo moderno in cui nessuno si ferma più del tempo di un caffè o una sigaretta, che si può guardare nel suo insieme, ma sempre con la coda dell’occhio. Niente è messo a fuoco, tutto si sposta e cambia, e quello che rimane sono storie incomplete, suoni indistinti, volti indefiniti, sensazioni inafferrabili e perciò così inspiegabilmente affascinanti. Claudia Collacciani, Massimo Corsini e Riccardo Di Pangrazio*
*articolo tratto dal giornalino del Liceo Scientifico Vitruvio Pollione