Una vicenda, quella del delitto del Morrone, di cui tra pochi giorni ricorreranno i venticinque anni, comprensibilmente radicatasi nella memoria degli abruzzesi e non solo.
È il 20 agosto 1997: le sorelle Diana e Silvia Olivetti, insieme all’amica Tamara Gobbo, intraprendono un’escursione alle pendici della Maiella, nel cuore dell’Abruzzo appenninico, intenzionate a raggiungere la cima del Monte Morrone, che sovrasta la Valle Peligna e la città di Sulmona. Dopo circa due ore di cammino, le giovani raggiungono la località di Mandra Castrata, dove si imbattono in un uomo in abiti trasandati, cui Diana domanda, da lontano, se quella sia la strada giusta per giungere in vetta al monte e l’uomo fa cenno con la mano di proseguire.
Pochi minuti dopo, si accorgono che l’uomo le sta seguendo e lui suggerisce loro di evitare lo stazzo che avrebbero incrociato di lì a poco, per non incontrare dei cani. Indica quindi una strada alternativa, nel bosco di Mandra Castrata e le accompagna per un certo tratto. Giunti ai confini del bosco, l’uomo punta una pistola contro le tre giovani, intimando loro di addentrarsi tra gli alberi.
Le ragazze implorano l’aggressore di lasciarle andare, provando a offrirgli i loro averi, ma questi inizia a far fuoco: colpisce Silvia all’addome e ferisce mortalmente Tamara. Rincorre poi Diana, la aggredisce sessualmente ed esplode contro di lei un colpo d’arma da fuoco, uccidendola. Silvia riesce ad allontanarsi dalla zona, fino un caseggiato, da cui vengono chiamati soccorsi. Le indagini del caso vengono affidate alla polizia e coordinate dal pm del Tribunale di Sulmona, Laura Scarsella.
L’aggressore, un pastore macedone di nome Halivebi Hasani, detto Alì, non fugge, né si preoccupa di occultare le prove che in seguito consentiranno di ricondurlo alle efferate aggressioni da lui poste in essere. Viene individuato la sera dello stesso giorno, il 20 agosto, in prossimità dello stazzo di Campotosto, dove vive in totale solitudine e condizioni igienico-sanitarie estremamente critiche.
Gli investigatori acquisiscono senza difficoltà gli abiti indossati dal soggetto al momento del delitto e delle armi di cui questi dispone: una pistola automatica e due a tamburo, che Alì dichiara appartenenti al suo datore d lavoro, Mario Iacobucci. A farle ritrovare è proprio quest’ultimo, che ammette di averle fornite al giovane macedone, ignaro tuttavia dell’utilizzo che ne avrebbe fatto, e di averle in seguito nascoste, temendo di essere coinvolto nella vicenda. Il giorno successivo, 21 agosto, Alì confessa l’omicidio di Tamara e Diana e il tentato omicidio di Silvia, negando però lo stupro.
Tra gli avvocati che assistono Hasani, vi è Nino Marazzita, che ammetterà che “difenderlo era un’impresa disperata”, riferendo che l’uomo risultava caratterizzato da una sconcertante “immobilità d’espressione”. Secondo Marazzita, la totale mancanza di senso civico e dell’organizzazione mentale necessaria a condurre un’esistenza normale, di cui il soggetto dava palesemente prova, sembravano scaturire anche dalle condizioni di totale abbrutimento in cui il pastore si trovava a vivere.
Nel 1999, la Corte d’Assise de L’Aquila condanna Hasani all’ergastolo per i reati di omicidio volontario plurimo pluriaggravato, tentativo di omicidio, violenza sessuale, porto e detenzione abusivo d’armi. Iacobucci patteggia una condanna a un anno per porto e detenzione di armi clandestine.
Nella ricorrenza dei ventiquattro anni dalla vicenda, nel 2021, il procuratore di Sulmona Giuseppe Bellelli ha dichiarato al Giornale: “Il delitto del Morrone scosse profondamente noi abruzzesi. E ancora oggi, nonostante la vicenda giudiziaria sia conclusa da tempo, la ricordiamo con profondo dolore”.
Secondo la giornalista Maria Trozzi, che ha dedicato alla vicenda il libro-inchiesta Il sentiero delle Signore, “Nonostante la condanna di Hasani, ci sono ancora dei punti oscuri sulla dinamica dell’accaduto. Purtroppo, per i mezzi investigativi di cui si disponeva al tempo, non fu possibile fare ulteriori accertamenti”. Tra l’altro, sembra che all’epoca non sia stata ritrovata una quarta pistola – forse l’arma del delitto – definita dalle cronache di allora appunto come la “pistola fantasma”.
“Il mistero della quarta pistola è sicuramente uno dei maggiori irrisolti del caso”, ha dichiarato Maria Trozzi al Giornale, “Senza contare che un bossolo dei proiettili esplosi furono ritrovati dagli investigatori a primavera dell’anno successivo, nel 1998, riuscendo a sfuggire persino ai metal detector della scientifica nelle indagini condotte subito dopo tragedia. Sfogliando i faldoni dell’inchiesta, ad esempio, mi sono accorta che manca lo Stub (il tampone necessario a rilevare i residui di sparo, ndr) sebbene la polizia abbia confermato di aver eseguito un’analisi col guanto di paraffina. Ci sono ancora molti aspetti di questa vicenda che non sono chiari. Bisogna però considerare che al tempo non si avevano a disposizione gli strumenti che ci sono oggi per un’analisi accurata della scena del crimine”.
Si è anche ipotizzato che, il 20 agosto 1997, qualcuno possa aver assistito alla mattanza. In ogni caso, secondo il procuratore Bellelli, sentito in proposito nel 2021, “Pur non escludendo ricostruzioni diverse dal fatto, non ho ravvisato elementi per riaprire le indagini”.