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Ivan Graziani, il magistrale tributo di Federico Falcone all’indimenticato cantautore abruzzese

Francesco Proia di Francesco Proia
14 Settembre 2025
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Avezzano. C’è una foto che basterebbe da sola a raccontare un’epoca: lui, Ivan Graziani, con quegli occhiali enormi, cornice rossa, un po’ Elton John, un po’ maschera carnevalesca. Ma in realtà servivano a nascondere la timidezza, perché Ivan, dietro quell’aria da rocker, era un ragazzo riservato, che trovava rifugio soltanto nella chitarra. Federico Falcone, nel suo nuovo libro edito da Ianieri Edizioni, ci porta a conoscere davvero quell’uomo: non la star, non solo il cantautore, ma l’adolescente abruzzese che, in un’Italia che usciva dal dopoguerra, sognava di cambiare il significato di “rock italiano”.

Immaginate la scena: un bambino che osserva il padre sviluppare fotografie in una stanza buia, il rosso della lampada che colora l’aria. Ivan assorbe quell’arte visiva e la traduce in disegno. Passa pomeriggi a riempire fogli. Più tardi, da ragazzo, per sopravvivere a Urbino, disegnerà perfino fumetti erotici per riviste svedesi. Lo racconterà lui stesso, con ironia: “arrivai a guadagnare 120mila lire a striscia”. Non per vocazione, ma perché ogni matita era già un anticipo di libertà. Poi, improvvisamente, Tunisia, 1960. Un porto del Mediterraneo. Una band di provincia, i Nino Dale and His Modernists, sale su una nave. Tra loro c’è un ragazzino con una chitarra che sembra più grande di lui. Hanno quindici anni, eppure stanno partendo per una tournée. È la prima volta che scopre che la musica può davvero portarti altrove.

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Milano, anni Settanta. Una stanza fumosa alla Galleria del Corso. Lucio Battisti sta provando Ancora tu. Ivan prende la chitarra, inventa un giro, non viene mai accreditato, ma il suo tocco resta inciso in quel suono. Più tardi girerà intorno alla PFM, scriverà con Venditti, entrerà e uscirà da progetti che sembrano pronti a decollare. Sempre vicino al successo, mai disposto a svendersi. E poi arriva Pigro, il 1978, il disco perfetto. Un album che è quasi un film. Monna Lisa, dove un ladro smarrito non capisce nemmeno il francese davanti al quadro rubato. Sabbia del deserto, con la pioggia di provincia e gli artisti falliti. Paolina, una donna che non sa se scegliere la passione o la rassegnazione. Gabriele D’Annunzio, non il Vate ma un contadino ubriacone che spaventa bambine al parco. È una radiografia spietata di un’Italia pigra, tronfia, incapace di cambiare.

E poi ci sono le ballate, gli amori, gli addii, le biciclette. Lugano addio: due ragazzi che si lasciano su una panchina. Agnese: una corsa nella nebbia alle cinque del mattino, un manubrio vuoto, lei che non c’è più, lui che pedala per sentirsi vivo. Forse la canzone più crudele della musica italiana. Ma Ivan non è solo malinconia. Ad Alghero diventa “Ivan Olìa”, ride con gli amici, parla in algherese, porta la moglie in viaggio di nozze a dormire sotto le stelle. Non è la rockstar: è il ragazzo che amava il mare.

Gli anni Ottanta portano un vento diverso. Ivan continua a scrivere noir e ballate amare. Il pubblico si distrae, ma lui resiste. Nel 1994 torna a Sanremo con Maledette malelingue: settimo posto, ma un lampo di ritorno. A Teramo fonda una scuola per nuovi cantautori, sogna studi di registrazione vintage, si avvicina perfino alla politica. Poi la malattia, silenziosa, che non lo ferma finché può. Novembre 1997, l’ultimo concerto a Torino. Pochi giorni dopo, se ne va. Cinquantun anni, troppo presto.

Falcone ci restituisce un ritratto vero. Ivan non era un divo, non sgomitava per apparire. Era discreto, ironico, serio con la musica. Credeva che nel rock ci fosse un pezzo di saltarello abruzzese, un frammento di ballo tondo sardo. Per lui il divertimento era una cosa seria. E così, chiudendo il libro, sembra quasi di vederlo ancora: Ivan con la chitarra a tracolla, il gilet in pelle, gli occhiali rossi. A metà tra timidezza e sfida, pronto a suonare un accordo che non avevamo mai sentito prima.

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