Settant’anni fa le donne votavano per la prima volta: il 2 giugno 1946 nell’assemblea costituente della Repubblica italiana ne entrarono solo 21 su 556 componenti. Nella stampa così venivano narrate: “Bianca Bianchi, socialista, vestiva un abito colore vinaccia e i capelli lucenti che la onorevole porta fluenti e sciolti sulle spalle le conferivano un aspetto d’angelo. Vista sull’alto banco della presidenza dove salì con i più giovani colleghi a costituire l’ufficio provvisorio, ingentiliva l’austerità di quegli scanni. Era con lei (oltre all’Andreotti, al Matteotti e al Cicerone) Teresa Mattei, di venticinque anni e mesi due, la più giovane di tutti nella Camera, vestita in blu a pallini bianchi e con un bianco collarino. Più vistose altre colleghe: le comuniste in genere erano in vesti chiare (una in colore tuorlo d’uovo); la qualunquista Della Penna in color saponetta e complicata pettinatura (un rouleau di capelli biondi attorno alla testa); in tailleur di shantung beige la Cingolani Guidi, che era la sola democristiana in chiaro; in blu e pallini rossi la Montagnana; molto elegante, in nero signorile e con bei guanti traforati la Merlin; un’altra in veste marmorizzata su fondo rosa”. Eppure le donne della Costituente non erano solo colore come venivano descritte da qualcuno, rivelandosi ben presto motivate e determinate a rimuovere incrostazioni secolari. Significativa la tensione registrata nella discussione sul loro accesso alla Magistratura. Si era verso la fine del 1947, anno nel quale si era consumata la dolorosa rottura dei governi unitari antifascisti ma nel quale, al tempo stesso, veniva ultimata la grande tessitura della carta fondamentale della Repubblica: una delle più belle costituzioni che la democrazia moderna abbia mai prodotto, proprio da parte di quelle forze politiche – espressioni delle grandi culture laiche, socialiste e cattoliche – divise profondamente dalla “guerra fredda”. Il dibattito parlamentare – nonostante la primavera della Repubblica – non era immune dai pregiudizi di una cultura, sostanzialmente negatrice della dignità delle donne, che le preferiva relegate nella sfera domestica all’ambiguo ruolo di “angelo del focolare” e di riproduzione della specie. Un deputato affermò senza alcun imbarazzo: “La donna deve rimanere la regina della casa, più si allontana dalla famiglia più questa si sgretola. Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche. Questa è la mia opinione, le donne devono stare a casa”. A meno di un mese dalla conclusione del grande lavoro svolto dalla Costituente, l’Assemblea plenaria aveva già votato l’art. 48 del progetto di Costituzione – l’art. 51 del testo definitivo (“tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive ed agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”) – ma per i Magistrati all’art. 98 (il 106 definitivo) si aggiungeva: “Possono essere nominate anche le donne nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario”. Il comma venne discusso il 26 novembre 1947 nella seduta antimeridiana dell’Assemblea plenaria. La parlamentare dc Maria Federici avvertiva l’inganno, il comma è un “troppo che storpia”: infatti temendo, a ragione, che si volesse attribuire alla legge ordinaria per l’ordinamento giudiziario il potere di limitare l’accesso delle donne alla carriera giudiziaria, propose la soppressione dell’intero comma. Le parlamentari comuniste Maria Maddalena Rossi e Teresa Mattei, invece, vollerro fare chiarezza proponendo all’Assemblea un emendamento sostitutivo secondo il quale “le donne hanno diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della Magistratura”. L’onorevole Giovanni Leone, a nome della Commissione dei 75, non senza una buona dose di furbizia forense, invitò a non “drammatizzare questo problema” considerato che la legge ordinaria avrebbe disciplinato la materia: in quell’ambito “dovrà tener conto della particolare adattabilità della donna” alle funzioni della giurisdizione, in tal modo prevedendo specifici requisiti per le donne, ovviamente distinti da quelli per gli uomini. L’emendamento incautamente proposto dalle onorevoli Rossi e Mattei venne sottoposto a scrutinio segreto e risultò respinto: un’autentica disfatta per le donne dal sapore irreversibile. Nella seduta pomeridiana, tuttavia, la Federici riallaccia le fila di un comune convincimento con le colleghe comuniste e insieme presentano un ordine del giorno che definisce le garanzie di accesso per le donne alla Magistratura in conformità a quelle già contenute nell’art. 48 sull’accesso di entrambi i sessi agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza. L’ordine del giorno viene approvato, la volontà manifestata dai costituenti diviene così inequivocabile al punto da rendere inammissibili future discriminazioni per le donne in Magistratura. Nelle prime legislature repubblicane, tuttavia, non fu facile dare attuazione al principio costituzionale doppiamente prescritto, in via generale, dall’articolo 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”) e, in particolare, dall’articolo 51 della Costituzione (“Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.”). Tra i tanti casi di persistente diseguaglianza giuridica delle donne l’articolo 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, pur ammettendole all’esercizio delle professioni e agli impieghi pubblici, le escludeva espressamente dalla Magistratura. Dal 1947 si erano svolti ben sedici concorsi senza che le donne potessero parteciparvi. Il divieto fu abrogato soltanto nel 1963, con l’articolo 2 della legge n. 66, nella stagione delle grandi riforme che iniziò, per tutti gli adolescenti, con il diritto-dovere di accesso all’istruzione obbligatoria della scuola media unificata e, per tutti i cittadini e le imprese, con il diritto di accesso all’uso dell’energia elettrica. Oggi le donne in Magistratura sono poco meno del 50 per cento ma la loro presenza ai vertici dell’ordine giudiziario è notevolmente inferiore. In ogni caso la direzione faticosamente intrapresa 70 anni or sono è da tempo irreversibile. Come in molti altri eventi epocali, del resto, quello che è acquisito come ovvio dalla cultura del nostro tempo è stato possibile solo grazie al coraggio e all’impegno di piccole minoranze: le donne nella Resistenza e nella Costituente con gli uomini che seppero costruire il futuro dell’Italia. Antonino Lusi