Tagliacozzo. La “piccola brigantina sognatrice”, così la conoscevano gli assidui frequentanti della Cantina del Brigante, tipico locale nella suggestiva Piazza Argoli di Tagliacozzo, nel quale la giovane chef abruzzese Lucia Tellone era ai suoi arbori culinari. Oggi, la “brigantina” è cresciuta, dopo molti viaggi che l’hanno allontanata dal piccolo centro abruzzese e l’hanno vista davanti ai fornelli di numerosi ristoranti a Venezia, Milano, Oslo, Frantzèn ed in ultimo, ma solo in senso cronologico, la si è vista protagonista tra i dodici giovani talenti italiani richiamati all’Ambasciata del Gusto, direttamente dello chef italiano per eccellenza attualmente, Carlo Cracco. Una ragazza umile, di origini modeste, ma con grandi sogni e prospettive. Il padre contadino e la signora Soraia, amorevole mamma a tempo pieno sono fieri di lei, soffrendo un po’ la sua mancanza in casa. Una grande soddisfazione per la sorella maggiore, Fulvia, anche lei spesso lontana dalla sua terra per il suo percorso in carriera come upstylist-artist e per il giovane fratello Michel, che invece ha scelto di seguire la strada del padre ricercando nei campi l’amore e la gioia del contatto con la sua terra madre. Reduce da un’avventura unica, impegnativa ed emozionante ad Abbiategrasso, Lucia è tornata qualche giorno fa nella sua dimora a Villa San Sebastiano, vittima, purtroppo, di uno spiacevole incidente di percorso che l’ha vista derubata della sua valigia sul treno che la riportava a casa, proprio nel tratto ferroviario da Roma a Tagliacozzo. Amareggiata, ma per nulla sconfortata, la ragazza mi ha accolto sorridente in casa e davanti ad un tè, mi ha raccontato la sua formazione, il suo amore per la cucina, i suoi piatti e l’esperienza a Milano.
Cara “cheffessa”, ormai sei una portavoce del nostro territorio abruzzese. Tuttavia, prima del racconto sull’esperienza all’Ambasciata del Gusto, vorrei sapere un po’ gli arbori della tua passione culinaria.
Tutto è nato nella cucina di casa. Mentre cucinavano, nonna e mamma avevano la picchia dietro l’angolo che le controllava. Da piccola, non avevo mai paura di sporcarmi, al contrario di mia sorella… già lì, si vedevano le nostre strade diverse (afferma sorridendo). Vedendo il mio interesse, ogni volta che si preparavano polenta o gnocchi, nonna mi chiamava ad assisterla e quando si ultilizzava il forno a legna per cuocere il pane, per me era una vera festa. Questi piccoli e piacevoli ricordi rappresentano per me quel calore emotivo che mi spinge a continuare e mi riscalda nei momenti di sconforto. La mia prima esperienza di lavoro è stata poi qui a Tagliacozzo. La Cantina del Brigante è stato il mio primo approccio al mondo della cucina e il m lo devo proprio ai gestori, in particolare a Mario Iacomini. Era più o meno il 2004, nella cucina della zona vigevano costantemente piatti di tradizione, buoni, ricchi e saporiti, ma che non mostravano una ricca ricerca. La passione per la cucina spingeva Mario a provare sempre piatti nuovi ed è stato tra i primi a ricercare i contadini del posto per promuovere tutti prodotti della nostra terra. Lì il mio interesse e la mia passione per il mondo culinario crebbero notevolemente.
Dal tuo interesse per il nuovo, hai sentito quindi la necessità di approfondire il tuo profilo culinario ed hai deciso di partire. Parlami dell’inizio di questo percorso.
Quando ho cominciato, ho dovuto effettuare una scelta abbastanza difficile: avevo avuto un problema grave all’occhio e dopo sei anni di lavoro, ho deciso di lasciare la Cantina, nonostante l’affetto legato. La prima cosa che ho fatto è stato cercare contatti: facebook mi è stato molto utile e sono riuscita a sentirmi con Terry Giacomello, un noto chef italiano, con il quale ho legato una particolare amicizia, dopo un paio di mesi di lavoro a Madonna di Campiglio. All’epoca, Terry lavorava in Spagna, mi vide interessata e mi disse con franchezza: “Hai i soldi per aprirti un ristorante tuo?”. Risposi seccamente di no, per cui mi consigliò di viaggiare e accettare all’inizio qualsiasi offerta di lavoro nel mondo della cucina. Inviato il curriculum, lavorai un pò Calabria, ma non era il mio ambiente prediletto e dopo poco tornai un po’ scoraggiata. Senza perdermi d’animo, però, mi trasferì a Padova, per un anno e mezzo dove ho conosciuto Massimiliano Alajmo e poi a Venezia, nel ristorante “La colomba” dove ho affrontato un’esperienza molto significativa. Era luglio 2012. Lo chef del ristorante fu mandato via e mi ritrovai per la prima volta da sola in cucina: mi fu data la possibilità di rimanere, ossia portare avanti il tutto da sola. Accettai, e ed insieme ad un ragazzo che mi dava una mano la sera, abbiamo lavorato sodo; per la prima volta ebbi la possibilità di cambiare un menù. A Novembre lasciai e mi trasferì a Milano, dove cominciai a lavorare per Enrico Bartolini, a Canevago Brianza, nel Devero Hotel Ristorante, “marchiato” dalle due stelle micheline. Era una vera caserma militare della cucina: premetto che le donne non sono molto facilitate nel lavoro della cucina italiana, ma oltre a questo, lì i ritmi erano molto duri. Poche ore di sonno, colazione per duecentocinquanta persone, pranzi e cene per il doppio. Non faceva per me, dopo un anno e andai via proiettando l’Europa.
Nonostante la straordinaria qualità della cucina italiana, sembra siano stati proprio i fornelli europei a cambiarti e stimolarti molto. In che modo?
Dopo l’esperienza Bartolini, presi il mio curriculum e lo inviai in triplice copia: due in Italia e una in Norvegia. Tre giorni dopo, uno chef norvegese mi contattò dicendomi che da lì a poco il suo ristorante avrebbe riaperto dopo chiusura per ristrutturazione e che ero la benvenuta a lavorare con lui. Lessi quella mail infinite volte, ma non mi capacitai di come uno chef che non mi conoscesse per nulla, fosse così entusiasta di accogliermi. Decisi di andare, era febbraio. Ricordo ancora che atterrata, la neve era così fitta che non riuscivo a vedere ad un palmo di mano di distanza. Trascinavo la valigia, senza conoscere bene la direzione. Ovviamente, no telefono ultima generazione, no navigatore. Non sapevo neanche dove stava l’ostello e girovagavo per Oslo senza mete. Il ristorante “Maeemo” pur molto famoso, non aveva insegne. La fortuna volle che incontrai un passante, al quale chiesi informazioni che riuscì ad aiutarmi.(era un passante non ricordo…) . Cadano pure tutti i pregiudizi verso i nordici e la loro freddezza, perché in base a quest’esperienza posso dire che molti sono disposti a metterti il cuore in mano. Ero infreddolita e timorosa, l’uomo, sulla cinquantina, mi prese per mano e mi accompagnò alla fermata; mi diede dei soldi per il biglietto, nonostante io insistetti dicendo di averli, ma la sua risposta in inglese fu decisa: ogni giorno, tutti dovremmo fare una buona azione verso il prossimo e questa è la mia. Conservo ancora gelosamente quelle monete nel portafogli, quel gesto di cuore mi ha dato tantissima energia. Arrivata al ristorante, trovai il mondo in una camera: c’erano lavoratori di ogni nazionalità, Grecia, Turchia, Messico, Australia. Fu il momento in cui mi sentii più lontana da casa, ma nel contempo molto motivata, immaginando quei ragazzi australiani che avevano abbandonato il caldo australiano per seguire la loro passione sino in Norvegia. La mia determinazione aumentò letteralmente. Il lavoro era preciso, ordinato e lo chef Esben Holmboe Bang aveva impostato il tutto in termini paritari: per fare un esempio, non c’era il lavapiatti, tutti noi collaboratori li lavavamo dieci minuti a turno. Tutti questi fattori mi hanno ridato quella fiducia che prima di partire avevo un po’ smarrito, per questo mi sono sentita cambiata. L’altra mia esperienza importante in Europa è stata la Svezia. Durante la realizzazione del progetto Maestro Martino, che mi ha visto impegnata due singole serate in quest’estate, avevo in precedenza inviato il curriculum in Svezia e sono andata a lavorare a Stoccolma, nel ristorante “Frantzèn”, nome ripreso dall’omonimo cognome dello chef. A differenza di Oslo, la struttura di lavoro era molto gerarchica. Tuttavia, ogni venerdì, c’erano delle attività ad unire il gruppo. Eravamo molti ragazzi nuovi e lo chef per conoscerci ci raccontò la travagliata storia del suo ristorante, di come da zero è riuscito a creare il suo locale, incoraggiandoci a seguire i nostri sogni.
In un lavoro come il tuo che comporta numerosi viaggi, il sacrificio più forte spesso sono gli affetti. Come lo affronti?
Al compleanno dei miei 30anni stavo sola, lo ammetto, la nostalgia di casa e amici era molto forte. Anche per le conoscenze nel lavoro, per quanto spesso bellissime e piacevoli, non è facile e purtroppo non si trova molto tempo per coltivarle a dovere. Tuttavia, è una scelta che ho fatto con il cuore e il calore delle persone care contente per me, mi arriva anche a distanza.
A questo punto, è arrivata la chiamata all’Ambasciata del Gusto. La corona di un sogno in questa tua prima fase del viaggio. In cosa è consistito il progetto e come ti sei sentita nella realizzazione dei tuoi piatti affianco ad uno degli chef di fama più bravi attualmente?
L’Associazione Maestro Martino, di cui Cracco è il presidente, tende a promuove i singoli prodotti del territorio. Per quello che si dica di Cracco, ho stima per lui non solo professionalemnte, ma specie come persona. Il progetto ha previsto la collaborazione di sei giovani donne e sei giovani uomini. Da qui, si evince un onesto senso di parità, rispetto alla generale condizione della cucina italiana, come dicevo prima, nella quale la donna è molto svantaggiata. In secondo luogo, è stata una vera valorizzazione dei giovani. Tra di noi, nessuno era famoso e la realizzazione del progetto si è presentata come uno specchio dell’idea di cucina dello chef: 12 giovani promesse con 12 singoli talenti e competenze diverse. Il nostro compito consisteva appunto nell’usare i prodotti tipici lombardi del Parco del Ticino. Dopo un primo incontro tutti insieme a maggio, per sei mesi ognuno di noi si è alternato, per due week-end nella sede scelta per l’Ambasciata ad Abbiategrasso, nell’ex convento dell’Annunciata. Sono andata in una prima tappa a luglio e poi a settembre. In entrambe le occasioni, ho avuto poi la fortuna di essere stata scelta per l’elaborazione di un piatto molto particolare, una patatina gastronomica, utilizzando la rustica San Carlo. Una sfida difficile, specie perché la patatina è fine a sé stessa nel consumo di un aperitivo o di uno stuzzico, non di un piatto, ma proprio per questo ancor più motivante. A settembre, nelle festa finale dove ci siamo riuniti tutti, ho avuto infine modo di constatare quanto cuore i ragazzi e le ragazze hanno utilizzato nel realizzare il progetto. Ho acquisito un bagaglio pieno di ricordi, non solo materiali, ma di emozioni e soddisfazioni. Sembra quasi che la vita mi abbia voluto compensare questa immensa gioia e mi ha riportata subito in basso, quando sul treno, mi sono girata e non ho visto più la valigia. Ho sentito un vuoto forte. Non tanto per i coltelli o i vari utensili appetibili economicamente, ma per quaderni con le lettere dei miei nonni, quelli delle mie ricetti e il diario dei miei viaggi che mi ha accompagnato. Credo che per nessuno possano avere un vero valore, ma per me è infinito. Mi auguro che almeno quelli possano rientrare a casa. (In tono duro e con occhi fragili allo stesso tempo, la ragazza si appella al buon senso).
Oggi la cucina sembra più moda che passione e molti si improvvisano nella realizzazione di questo mestiere. Tu hai fatto molti sacrifici per realizzare questa tua ambizione, cosa significa creare un piatto in cucina?
In umiltà, posso dire che non è un assemblaggio di ingredienti, altrimenti diviene un lavoro meccanico. Penso che la cucina sia un lavoro dove agiscono insieme mani, mente e cuore. È un lavoro artigiano perché si lavora con le mani e con la testa, ma è anche un lavoro artistico perché lo si sceglie con il cuore. Quando penso ad un piatto, cerco di rendere onore alla terra che rappresenta. Per esempio, tempo fa presentai in un concorso un piatto chiamato “LA-QUI-LA”, nome scelto per rendere onore al nostro capuluogo abruzzese, martoriato dal terremoto e troppo presto dimenticato. Il piatto richiama la tradizionale “Transumanza”, lo storico tragitto compiuto dai pastori abruzzesi con le pecore, sino alle terre calde della Puglia. Sin da piccola, trascorrevo i pomeriggi con mio nonno che portava al pascolo il gregge e con questo piatto ho cercato di rendere onore alle mie origini. Le mie radici cerco di non dimenticarle mai e nel mio piccolo, cerco sempre di far conoscere anche agli altri il prodotto del mio territorio. Anche a Milano, per esempio, nella creazione del piatto con la patatina San Carlo, ho grattuggiato delle coppiette di maiale, rivalorrizzando l’utilizzo del prodotto. Come quando un pittore si trova davanti ad una tela bianca, non vede il bianco, ma già immagina il suo disegno, così il cuoco non vedrà mai un piatto vuoto, ma lo riempe trasmettendo qualcosa di sé.
Il tuo piatto preferito che hai preparato?
Uno dei piatti a cui sono affezionata, perchè ho avuto la possibilità di osare, è stato “Narciso che si specchia nella birra” Piatto in cui ho utilizzato i bulbi del suddetto fiore del Narciso, cucinato in un the nero affumicato e serviti in una zuppa tiepida di birra. Il nome denota poi un chiaro richiamo alla mitologia.
Come hai detto anche tu, la cucina abruzzese è sempre stata molto tradizionale, per quanto molto piacevole al palato. Secondo te, in questo periodo in cui la cucina mostra una ricerca più determinata e si tende ad un piatto più ricercato, cosa può produrre di nuovo l’Abruzzo?
L’Abruzzo ha dei prodotti storici eccellenti, tra spezie e legumi. Una ricerca approfondita ci permette di valutare come i prodotti abruzzesi siano fondamentali per una buona e sana cucina. Nel territorio manca un po’ l’innovazione, ma anche il fare squadra tra gli enti restoratori del luogo che manifestano una mentalità un po’ chiusa, che determina un’eccessiva concorrenza.
Come valuti le “improvvise” dichiarazioni dell’Oms sulla carne?
Io da cuoca non posso demonizzare la carne, in quanto alimento che va a completare e arricchire la varietà dei menù di molti ristoranti. Credo però che in tutte le cose debba esserci la giusta misura. Conosco allevatori la cui scelta etica è quella di non produrre quantità infinite di carne, ma quei pochi capi che allevano rappresentano il prodotto di un percorso atto a garantire qualità e rispetto. Tutto fa male se consumato all’eccesso. La carne rossa consumata tutti i giorni fa male, lo sanno tutti. A casa mia, poi, c’è stata una netta inversione di rotta, andando ad eliminare in maniera molto graduale, carne, olio di palma e latte, riuscendo a compensarli con i prodotti della terra.
Futuro?
Oggi non sento di mettere radici in un posto fisso. Spero comunque di riuscire a realizzarmi in Italia, in un ristorante dove si sorrida frequentemente. Intanto, per chi vuole, può seguirmi sulle mie pagine faceboook, dove cerco di trasmettere l’amore per il mio mestiere.
Ultima domanda: hai detto che le tue radici sono importanti. Essendo abruzzese, sai bene che Amatrice era una cittadina della nostra regione. Hai detto a Cracco che il matrimonio aglio-amatriciana, non è legale in questa zona? Sì, abbiamo parlato e scherzato un po’ su questo. Tuttavia, voglio ricordare che la sua è pur sempre una rivisitazione, così come in piccolo lo è stata la mia con la patatina San Carlo. Posso dire certamente che il suo piatto non offende il palato, ma tende a valorizzare l’Amatriciana anche nel suo territorio.
Raffaele Castiglione Morelli