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Intervista al marsicano Alberto Stornelli, autore di “Equilibri digitali”

Francesco Proia di Francesco Proia
19 Dicembre 2014
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"Equilibri digitali" di Alberto Stornelli

"Equilibri digitali" di Alberto Stornelli

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"Equilibri digitali" di Alberto Stornelli
“Equilibri digitali” di Alberto Stornelli

Avezzano. Il lavoro editoriale fatto dal luchese Alberto Stornelli è di prim’ordine e io,che prima di ogni altra cosa nasco informatico, ho avuto il piacere di leggerlo e di scambiare con lui due chiacchiere sui temi trattati nel suo libro.

Il saggio breve di Stornelli tratta in maniera semplice le questioni legate alla trasparenza dei dati, gli algoritmi digitali per la tutela della privacy e le battaglie degli attivisti digitali per il possesso dei dati. Tutto questo in maniera diretta e semplice, comprensibile anche da chi finora non si è mai preoccupato di approfondire queste tematiche così attuali su cui tutti, volenti o nolenti, a breve dovremo imparare ad interrogarci.

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Alberto, da bravo informatico, sviluppatore web e appassionato di alcuni temi dell’informatica, ha racchiuso tutto questo in maniera ordinata e completa nell’ebook disponibile in formato elettronico su Amazon.

D. La prima idea che mi sono fatto leggendo il tuo libro, è quello dell’impreparazione generale su un tema così delicato come quello degli open data. Secondo te è azzardato paragonare questo periodo storico a quello dei primi anni del secolo scorso quando sono uscite le prime autovetture? Secondo te internet è un mezzo che dobbiamo ancora imparare ad usare?

R: Non è affatto azzardato pensare che siamo appena agli inizi, condivido. Siamo agli inizi dell’utilizzo delle tecnologie del web in generale e degli open data nello specifico. Ma soprattutto siamo all’inizio di una nuova narrazione della nostra epoca. Spiego meglio: in un passaggio del mio libro riporto un confronto tra il movimento ambientalista iniziato da sparuti gruppi di hippie ecologisti negli anni 60 e l’attuale situazione dei movimenti “open” nel campo tecnologico. La mia speranza è che proprio come l’ecologia è diventata nel corso degli anni un argomento di portata globale, anche la tecnologia e le sue problematiche possano diventare conosciute al grande pubblico. Secondo me il messaggio da portare è che, nonostante internet ed il web, l’informazione non è ancora equamente distribuita. Ma appunto tramite il web e la facilità di accedervi si può fare molto per migliorare le cose. Una delle frasi che più mi piace a proposito dell’uso consapevole della tecnologia è di Douglas Rouskhoff, teorico dei media digitali: “Programma o sarai programmato”.

 

D. Ho organizzato e partecipato a diversi Linux Day qui nella marsica e non posso non farti una domanda da appassionato di open source: quanto questo può essere d’aiuto sugli open data? Soprattutto sulla visione unica/standard di cui tu parli nel libro?

R: Affinché le comunità open data possano iniziare una maturazione vera, c’è bisogno che vengano standardizzate le tecnologie in modo da diventare invisibili, rendendo utilizzabili servizi senza che gli utenti debbano preoccuparsi di come funzionano. La stessa cosa che si preoccupano di fare da anni tutte le comunità open source del mondo, che creano servizi utili e li rendono fruibili gratuitamente. La stessa identica cosa che hanno fatto i leggendari tecnici dell’Internet Engineering Task Force formalizzando e rendendo interoperabili tra loro protocolli diversi, consentendo la connessione alla rete a qualunque tipologia di device senza alcun problema.

 

D. Open data è sempre più sinonimo di trasparenza. Ma non dimentichiamo che in più dovrebbero servire anche per capire (attraverso l’analisi dei dati) da dove viene e dove deve andare una pubblica amministrazione. Non c’è il rischio che le PA non li sappiano usare per cercare la rotta, e che questi dati pubblici vengano utilizzati da qualcuno che li usi per fini commerciali? E poi, dobbiamo pensare più al prodotto o al processo?

R. Fare Open Data per le Pubbliche Amministrazioni significa aprire senza tenerne il controllo. Quindi è benvenuta anche la possibilità di farne dei business, anzi dirò di più, dovrebbe essere proprio lo Stato ad abilitare la creazione di nuovi mercati competitivi. Gli open data della PA devono essere abilitatori per garantire nuove possibilità di mercato ai cittadini. Perciò penso più al processo che attuano le tecnologie che non ai prodotti stessi, come hai perspicacemente notato tu con la domanda. Cosa diversa è la trasparenza istituzionale, che non deve avere altri fini che non siano quelli informativi.

 

D. Va bene la trasparenza delle PA, ma come spieghi benissimo tu nel libro, spesso la troppa trasparenza serve solo a disorientare il cittadino. E’ un problema di interfacce/design/progettazione web oppure siamo di nuovo davanti al solito discorso di scarsa alfabetizzazione informatica dei cittadini? I colossi del software vanno sempre di più verso la semplificazione e, pur non condividendone personalmente alcuni aspetti, non posso non riconoscere che Apple è sempre stata ed è tuttora all’avanguardia in questo. Secondo te è un bene o un male semplificare così tanto una materia come l’informatica? Non sarebbe meglio evitare di semplificare troppo e studiare una sorta di “patente del computer” diversa però da quella che era stata pensata come “titolo di studio” qualche anno fa?

R. Io credo che l’utente di una piattaforma abbia sempre ragione e Apple dimostra come un apparecchio elettronico possa essere utilizzato da qualunque utente, anche senza aprire mai il libretto d’istruzioni. Questa dovrebbe essere la strada percorsa anche dalle PA. Non a caso il governo britannico, molto attento alla semplificazione dei propri servizi, ha creato il Government Digital Service per occuparsi di allargare il numero di utenti che usino i servizi digitali. Ne ho parlato in quest’articolo un po’ di tempo fa.

 

D. Mi ha colpito parecchio questa frase: “Lo stato ha evidentemente ceduto al mercato la gestione di internet”. In troppi pensano che essere su internet corrisponda ad avere un account su Facebook e la mia impressione è che se un giorno gli utenti si trovassero all’improvviso senza la rassicurante homepage di Google non saprebbero nemmeno da dove partire…

R. Il punto è proprio quello, si conoscono le realtà commerciali perché arrivano facilmente a spiegare cosa fanno. È facile capire che con Google si possono cercare contenuti e con Facebook connettersi con altre persone. Non è altrettanto facile capire cosa si possa fare di pubblico sul web. Bisogna cercare di risolvere i piccoli problemi delle persone con le piattaforme digitali e renderli conosciuti. Cosa posso fare sul sito di un Comune? Quali servizi mi sono semplificati? Mentre le realtà commerciali sanno semplificare tutti i loro servizi, le pubbliche amministrazioni ancora no. Quella dovrebbe essere la direzione secondo me per portare i cittadini sul web e migliorargli, seppur in piccoli aspetti, la vita.

 

D. Un’altra frase che mi ha notevolmente colpito è questa: “La trasparenza è ideologicizzata”. Ritieni davvero che ad oggi la trasparenza è più un ideologia da sbandierare che non una visione condivisa del problema?

R. Anche qui, se non risolviamo i problemi tecnologici e se le pubblicazioni non diventano obblighi, le azioni di trasparenza rischiano di restare delle banderuole politiche. Ognuno pubblica quello che vuole o peggio quello che gli torna utile in un determinato momento. Ed a risentirne è il processo globale di trasparenza, che non fa mai passi avanti e non fornisce reale servizio ai cittadini, ma si presta purtroppo alla comunicazione politica ed alla propaganda.

D. L’ultima domanda me la sono tenuta sulla trasparenza e il trattamento dei dati da parte dei social network. Le condizioni di Facebook sono qualcosa che nessuno ha mai letto. Tutti si lamentano del fantomatico chip sottopelle che un domani controllerà ogni nostra abitudine, ma nessuno capisce realmente cosa si regala a questi colossi dell’informatica accettando le loro condizioni d’uso. Come possiamo difenderci da queste privazioni in maniera concreta? A volte ho l’impressione che i social network siano una dipendenza come alcool e tabacco. Vale lo stesso per i casi di Snowden e Assange. Sembra quasi che quello fatto da questi due paladini non interessi a nessuno, non è stato capito che il problema non è “quello che è trapelato” ma sul perché debbano essere rese disponibili ai governi tutte quelle informazioni di massa senza alcuna distinzione di “pericolosità”.

R. Non sei il solo a pensarlo, anche lo scrittore e tecnologo americano Cory Doctorow pensa che l’oversharing sia una patologia ed un problema sociale da trattare. Le persone normalmente tendono a non pensare a queste problematiche, perché non è facile trovarne soluzioni che non siano d’isolamento oppure di rifiuto. Io credo che su queste cose debba esserci una presenza istituzionale di spiegazione e di facilitazione, perché per un utente può essere un compromesso accettabile rinunciare ad un po’ di privacy per usare servizi utili, mentre per uno Stato non deve essere accettabile che sia soltanto il servizio privato ad avere benefici dal controllo e dal possesso dei dati personali degli utenti.

Ed è appunto questa tesi ad avere dato il titolo al libro. Abbiamo bisogno di equilibri digitali perché stiamo producendo molti dati, ma non abbiamo indietro altrettanto da chi i nostri dati li usa.

Potete seguire Alberto Stornelli su Twitter oppure sul suo sito.

Alberto Stornelli
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