Luco dei Marsi. Nel mondo italico Angitia era universalmente riconosciuta come la dea che guariva dal morso dei serpenti e dal dolore. Ma probabilmente le sue capacità taumaturgiche avevano poco a che vedere con i poteri sovrannaturali di una dea, e molto invece nel sapiente utilizzo della natura. Il nome della dea Angitia proviene dal verbo ango, angere, tormentare, soffrire, angosciare, e gli emblemi di Angizia sono pressappoco quelli d’Igia greca, figlia d’Esculapio, dio della medicina: la coppa, presso i sacerdoti marsi, simboleggiava l’arte di comporre bevande medicinali e il serpente rappresentava il potere che avevano di calmare i dolori con la loro arte magica. Non dimentichiamo, inoltre, che in greco la parola “farmacon” significa proprio “veleno”.
Ma da cosa derivava la capacità di Angitia di curare il dolore? Il professor Giuseppe Grossi, uno degli storici più prestigiosi della Marsica, sostiene che il fiore a quattro petali, raffigurato dappertutto dentro e fuori il tempio della Dea Angizia e sui braccioli del trono, non fosse altro che il “papaver somniferum”, ovvero il papavero da oppio, fiore dalle incredibili proprietà antidolorifiche. Le capacità della dea Angitia di guarire dal dolore, quindi, sarebbero legate alle papaveris lacrimae. A sostegno di questa tesi c’è anche un altro ritrovamento, avvenuto nella chiesa di Santa Maria a Luco dei Marsi, edificata molto vicino al tempio della dea. Incastonato nel muro della chiesa vi era un bassorilievo del XII secolo di una Madonna Lactantis, un tempo presente sul fianco della chiesa ma che dopo il terremoto venne spostata all’interno. Per chiunque conosca un minimo la storia di quel posto, dove a poca distanza sorge il tempio di Angizia, è impossibile non notare le similitudini con la statua della Dea: entrambe sedute su un trono (dove compaiono gli stessi disegni floreali), in posizione molto simile e con una grande somiglianza persino nelle pieghe delle vesti. Peccato che il volto di entrambe le figure femminili sia quasi del tutto mancante, ma per il resto la somiglianza è fin troppo evidente. Forse la scelta del bassorilievo della Madonna Lactantis, ovvero della Madonna che allatta, potrebbe derivare dalla trasposizione cristiana della dea con il latte di papavero, una bevanda curativa ottenuta dal fiore oppiaceo. Niente di nuovo visto che la sostituzione di un rito pagano era già avvenuta con il rito dei serpari, in cui dopo l’arrivo del cristianesimo la dea Angizia venne rimpiazzata dal culto di San Domenico.
Il succo di papavero aveva molte proprietà, tra cui anche curare l’insonnia e le malattie articolari. Bollito nell’olio, invece, rendeva mansuete anche le bestie più feroci. Le donne anziane di Luco dei Marsi ricordano che ai mariti violenti veniva somministrato il “vino alloppiato”, ovvero un vino a cui venivano aggiunti dei semi di papavero, mentre un altro richiamo alla madonna lactantis potrebbe ritrovarsi nel latte alloppiato, che veniva utilizzato per calmare il pianto dei neonati. Se messi a macerare nell’acqua fresca, invece, i petali funzionavano come tonico cosmetico che davano colore alle gote delle donne. Ma c’era anche un altro uso del papavero da oppio: se preso in dosi massicce poteva essere usato per procurare la morte, una sorta di eutanasia ante litteram. Le capsule di papavero da oppio, che simboleggiavano il sonno eterno, non era raro che venissero utilizzate anche come simboli funebri, e infatti si possono osservare anche nei letti d’osso ritrovati nella vicina valle di Amplero, nei pressi di Collelongo.