Avezzano. Un maxi risarcimento per la morte a causa di un contagio dopo le trasfusioni in ospedale pubblico. Lo ha stabilito il tribunale dell’Aquila che ha condannato il ministero a risarcire gli eredi della vittima. Si tratta di una battaglia legale durata diversi anni contro lo Stato italiano intrapresa dai figli di un paziente della Valle Roveto, morto a 49 anni dopo venti di malattia.
La sentenza di condanna al risarcimento di circa un milione e 300mila euro compresi gli interessi è stata emessa dal giudice del tribunale dell’Aquila, Emanuele Petronio.
I fatti risalgono al 1983 quando il marsicano, che all’epoca non aveva neanche 30 anni, fu sottoposto a una trasfusione di sangue all’ospedale di Brescia. aveva infatti subito un intervento chirurgico di sostituzione della valvola aortica. Dopo alcuni anni aveva preso coscienza di aver contratto di infezione della Hcv, l’epatite c, correlata alle emotrasfusioni.
Era stato avviato un processo contro il ministero della salute responsabile di aver omesso di vigilare sulla sicurezza del sangue nonostante all’epoca erano state già acquisite le conoscenze scientifiche e gli strumenti di controllo sul sangue e sui i suoi componenti. Era accusato anche della tardiva approvazione di un piano nazionale per il sangue.
Il ministero si era opposto alle richieste di risarcimento della famiglia, assistita dall’avvocato Rosario Scicchitano, eccependo la prescrizione e sostenendo che non c’erano prove della presunta colpa dell’amministrazione e non c’era il nesso causale tra eventuali omissioni e i danni causati al paziente. Era stata disposta una consulenza medico legale al fine di accertare il nesso di causalità tra l’infezione e le trasfusioni ma anche per capire se il contagio fosse stato la causa della morte del marsicano, avvenuta a marzo del 2003.
La richiesta nei confronti del ministero era già prescritta, ma dopo la morte, secondo il giudice, si era creato un nuovo evento e di conseguenza un nuovo decorso di prescrizione. Così durante il processo, la relazione tecnica aveva confermato che all’epoca, oltre alla mancanza di test idonei a identificare il virus, non era accurata la selezione dei donatori e non venivano ricercati i cosiddetti test surrogati, come i livelli di transaminasi ad esempio, che avrebbero quantomeno ridotto il rischio di infezioni.
Secondo la consulenza disposta dal tribunale dell’Aquila, il ministero avrebbe dovuto effettuare tutte le accortezze necessarie al fine di ridurre i rischi di contagio, avviando controlli sulla sicurezza del sangue visto che da anni era nota la pericolosità. Proprio la mancanza di vigilanza sulle strutture operative competenti, ha determinato la responsabilità del ministero anche per le infezioni che all’epoca non erano ancora conosciute.