Nel cuore pulsante del Vinitaly 2025, tra i profumi intensi dei calici e l’energia contagiosa degli stand, abbiamo incontrato Fausto Albanesi, anima e volto dell’azienda Torre dei Beati di Loreto Aprutino, in provincia di Pescara. Con tono schietto e un’ironia tagliente, Albanesi ci ha offerto uno spaccato vivido del mondo del vino di oggi: un settore che, accanto al tradizionale racconto di bellezza e artigianalità, si trova a fronteggiare nuove tensioni legate alla percezione dell’alcol.
“Ho dovuto scrivere a caratteri cubitali che stavo vendendo un veleno”
L’intervista nasce da un racconto amaro che mi aveva appena fatto Fausto: “Sono appena reduce dall’etichettatura delle mie bottiglie per l’Irlanda… ho dovuto scrivere a caratteri cubitali che stavo vendendo un veleno, e poi sotto tutta la bella storiella del biologico, della selezione maniacale dei grappoli, etc etc… insomma sono un avvelenatore seriale.”
Una frase che fa sorridere, ma che racconta una realtà ben precisa: l’applicazione di normative sempre più severe in tema di etichettatura, in particolare in alcuni Paesi, rischia di sovrapporre il vino ad altri prodotti alcolici di ben altra natura e impatto. In gioco c’è la percezione collettiva: il vino, da sempre simbolo di cultura, convivialità e legame con la terra, viene talvolta rappresentato come un pericolo da cui mettersi in guardia.
Il paradosso tra allarme e realtà
Fausto Albanesi non nega i segnali di allarme, ma rivendica con forza la distanza tra certe narrazioni e ciò che accade nei luoghi in cui il vino nasce, vive e si racconta:
“C’è un po’ di distanza tra quello che si dice in giro intorno al vino, che improvvisamente sembra essere diventato un prodotto quasi velenoso, e l’entusiasmo che si respira qua.”
Ed è proprio quell’entusiasmo che colpisce chi attraversa il Vinitaly. Un entusiasmo fatto di passione vera, di storie personali, di mani che lavorano la terra e trasformano grappoli in emozioni, in un “prodotto magico”.
Il vino, per Albanesi, resta un simbolo di magia e naturalità, di connessione profonda tra uomo e territorio. E questa percezione, vissuta quotidianamente da chi il vino lo produce, stride con le recenti campagne mediatiche che ne enfatizzano i rischi sanitari senza distinguere tra consumo consapevole e abuso.
“Negli ultimi anni c’è un vento che sta un po’ soffiando in direzione opposta”
Il riferimento è chiaro: quel “vento” è fatto di proposte legislative, articoli di stampa e prese di posizione che tendono a ridurre il vino a una mera fonte di alcol, ignorando o minimizzando il suo valore culturale, sociale e simbolico. Eppure, il vignaiolo abruzzese non si lascia scoraggiare:
“Io penso che il buon senso tornerà a prevalere. Non vedo altra possibilità.”
Un’affermazione che è insieme speranza e dichiarazione di fiducia: fiducia nel pubblico, nella capacità collettiva di discernere, nel recupero di una visione più sfumata, meno ideologica.
Consapevolezza e misura: la chiave per il futuro
Lontano da ogni negazionismo, si deve ammette con onestà una verità che nessun produttore può ignorare: l’alcol fa male. Punto. Ma chi beve in maniera consapevole, beve in maniera diversa.
Il nodo, insomma, non è demonizzare il vino, ma promuovere una cultura del bere che sia rispettosa della salute, del piacere e della storia che ogni bottiglia racconta. Una cultura in cui il consumo non sia eccesso, ma esperienza. In cui il brindisi non sia un automatismo, ma un gesto scelto, condiviso, sentito.
Trovo che questa posizione rappresenti un passaggio cruciale nel dibattito contemporaneo sul vino. La maturità di una parte della viticoltura italiana consiste proprio in questo: nel saper riconoscere i rischi con lucidità, senza però rinunciare a difendere il valore culturale, territoriale ed emotivo di un prodotto che accompagna da secoli la nostra storia. La consapevolezza, se ben raccontata, non indebolisce il piacere: lo nobilita.
In tempi in cui tutto tende a essere polarizzato – salutismo contro tradizione, allarmismo contro romanticismo – la voce di chi il vino lo produce ogni giorno ci ricorda che esiste una terza via: quella del buonsenso. Una via fatta di conoscenza, misura e passione. E, soprattutto, di verità vissute, che non si leggono sulle etichette ma si ascoltano nei filari e nei bicchieri.
Chi scrive non può che accogliere e rilanciare questo messaggio. Perché se è vero che la salute pubblica merita attenzione e rigore, è altrettanto vero che cultura e tradizione non possono essere ridotte a slogan allarmistici. Il vino, se raccontato e consumato con intelligenza, non è nemico, ma alleato: della convivialità, del paesaggio, dell’identità di un intero Paese. In mezzo al frastuono delle contrapposizioni, parole come quelle di Albanesi riportano l’attenzione sul valore profondo del fare vino, e sul diritto di continuare a brindare con consapevolezza e dignità.
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