Avezzano. Il fenomeno della violenza sulle donne è complesso e multiforme, è difficile definirlo in modo da ricomprendere le sue molteplici accezioni e manifestazioni e arduo risulta approntare validi ed efficaci strumenti per contrastarlo, gestirlo e prevenirlo.
Il professore Luca Marrone, criminologo, rappresentante del Lions club di Avezzano, ha presentato così il suo intervento ieri al convegno realizzato dalla sezione di Avezzano di Fidapa BPW Italy, insieme a numerose altre associazioni del territorio. Un’intera giornata di sensibilizzazione al tema della violenza sulle donne, partita al mattino con l’incontro con gli studenti e proseguita fino a sera con l’intervento degli operatori del settore.
“Un giorno ho capito che dovevo fare di più che scusarmi e promettere che la violenza non si sarebbe ripetuta. Ho dovuto assumermi la responsabilità della violenza e iniziare il difficile lavoro di cambiare il mio atteggiamento e comportamento. Mi sento sollevato per aver messo a posto la situazione. Ho rischiato di perdere la mia famiglia o di avere una fedina penale sporca”. Così un ventiquattrenne che si è rivolto al Centro di ascolto per uomini maltrattanti, prima struttura in Italia a farsi carico degli uomini che commettono violenza sulle donne, con numerose sedi in Italia.
“Bisogna essere consapevoli, non basta il pentimento”, afferma un quarantunenne impegnato in un analogo percorso in una struttura di Forlì. Ma, in molti altri casi, purtroppo, certe consapevolezze risultano ancora ben lontane dall’essere maturate.
La relazione del professore Marrone.
1. Definizioni e indicatori
La Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne (1993) definisce il fenomeno come “qualsiasi atto di violenza di genere che provoca o possa provocare danni fisici, sessuali o psicologici alle donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia che si verifichi nella vita pubblica o privata”.
Applicando tale definizione, le Nazioni Unite identificano e riconoscono le seguenti forme di violenza contro le donne:
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la violenza inflitta dai partner;
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le pratiche tradizionali dannose, tra cui la mutilazione e il taglio genitale femminile, l’infanticidio femminile e la selezione sessuale prenatale, il matrimonio precoce, il matrimonio forzato, le violenze legate alla dote, i crimini contro le donne commessi per “onore”, il maltrattamento delle vedove;
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il femminicidio;
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la violenza sessuale da parte di non partner;
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le molestie sessuali e le violenze nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni educative e nello sport;
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la tratta di donne.
In ambito europeo, l’art. 3 della cd. Convenzione di Istanbul (2011), definisce la violenza di genere come qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato.
Secondo il citato Centro di ascolto per uomini maltrattanti, il comportamento violento e controllante può assumere i seguenti connotati:
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verbale, psicologico ed emotivo: molestie verbali continue, umiliazioni, critiche costanti offese, insulti, turpiloquio, etc.;
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sessuale: richieste di rapporti sessuali quando la partner ha chiarito che non vuole, minacce di violenza fisica durante il sesso, imposizione di pratiche sessuali non desiderate e di rapporti sessuali per “fare pace”, etc.;
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sociale: imposizione alla donna del divieto di incontrare amici o amiche non graditi al partner, di parlare con altri uomini, etc.;
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economico: controllo totale del reddito familiare, in modo che la donna non abbia soldi o ne disponga solo per le spese della famiglia; richiesta alla partner di rendiconti di ogni centesimo di spesa, etc.
In tema di violenza fisica, non ci si riferisce ai soli atti idonei a causare danni fisici, ma a ogni possibile forma di violenza, anche “solo” minacciata. Il comportamento violento e di controllo potrebbe rientrare in più categorie o rivelarsi “atipico”, non categorizzato. In ogni caso, qualunque condotta si riveli idonea a ingenerare in qualcuno paura o la sensazione di sentirsi controllato integra la fattispecie della violenza.
2. Dinamiche
I dati della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla violenza sulle donne presieduta dalla senatrice Valeria Valente, riferiti al biennio 2017-2018, ci restituiscono un quadro drammatico delle proporzioni del fenomeno nel nostro Paese. La Commissione, con il supporto di numerosi consulenti, traccia un nitido ritratto degli uomini che uccidono le donne e ricostruisce nei dettagli le dinamiche comportamentali sottese ai fatti di cronaca, talvolta riferiti dai mass-media senza coglierne tutte le implicazioni, psicologiche, sociali, culturali. Fornisce, inoltre, un quadro dettagliato della risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia.
Nei due anni considerati, gli omicidi di donne sono stati 273. Solo il 15% delle vittime (circa 1 su 7) aveva denunciato l’uomo che le avrebbe uccise; il rimanente 85% aveva subito in silenzio o aveva appena accennato a persone vicine la situazione in cui versava.
Dagli interventi della polizia giudiziaria emergono alcune “criticità”, come le definisce il dossier della Commissione. Il fatto, ad es., “che nei centri più piccoli in cui dovrebbe essere proprio il fattore della conoscenza personale ad aiutare nella lettura della violenza e del rischio”, alcune delle donne uccise abbiano chiesto aiuto alle forze dell’ordine “rappresentando la paura e la difficoltà di denunciare o la presenza di armi” e “sono state dissuase dal farlo […] rassicurate e rimandate a casa”.
Fra i consulenti voluti dalla Commissione, anche dei magistrati. E, grazie al loro apporto, è stato possibile evidenziare alcune implicazioni delle scelte lessicali adottate nelle sentenze e nelle archiviazioni. “Spesso”, dice la relazione, “la pregressa condotta violenta dell’uomo viene definita ‘relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, instabile…’, anche a fronte di precedenti denunce della vittima per gravi maltrattamenti. […] Molte sentenze non assumono un’analisi di genere e tale mancata prospettiva rappresenta un limite. Ad esempio, le vittime di femminicidio vengono spesso chiamate per nome, gli imputati per cognome, così generando una discriminazione, anche linguistica e simbolica, non giuridicamente giustificabile; le vittime di femminicidio non sono descritte rispetto al loro contesto sociale e/o professionale, ma indicate come madri, mogli e figlie, cioè rispetto al loro ruolo familiare; quando svolgono attività di prostituzione vengono chiamate prostitute e non con nome e cognome, così vittimizzandole e stigmatizzandole”.
3. Contrasto e prevenzione
3.1. Programmi per gli autori di reato
In questa sede, concentreremo la nostra attenzione, in particolare, sui programmi approntati per gli autori di violenza di genere. L’istituzione e la diffusione di tali programmi di trattamento è prevista dall’articolo 16 della Convenzione di Istanbul, nell’ambito della “Prevenzione” (Capitolo III). Secondo la Convenzione, tali iniziative hanno l’obiettivo prioritario di garantire la sicurezza, il supporto e il rispetto dei diritti delle vittime, mediante interventi trattamentali tesi ad aiutare gli autori a modificare attitudini e comportamenti violenti, nell’ambito di un lavoro integrato con servizi specializzati nella prevenzione e nel contrasto del fenomeno.
Tali programmi di trattamento si fondano sul principio secondo cui la violenza di genere scaturisce da norme e credenze culturalmente costruite e socializzate che, in quanto tali, risultano idonee a essere disapprese. In questo senso, obiettivi primari dei programmi consistono nel raggiungimento della piena assunzione di responsabilità e consapevolezza delle conseguenze che la violenza agita ha sulle vittime, nonché nella riduzione del rischio di recidiva.
Tali obiettivi devono raggiungersi mediante una approfondita analisi delle attitudini e delle credenze che alimentano stereotipi e comportamenti sessisti e discriminatori contro le donne, accrescendo l’empatia e la motivazione a realizzare un cambiamento che coinvolge, sotto ogni aspetto, l’autore e il contesto relazionale in cui questi è inscritto (Hagemann-White, 2010; Kelly, 2008; Hester e Lilley, 2014; Lilley-Walker, Hester e Turner, 2016).
In tale prospettiva, il Consiglio d’Europa ha evidenziato l’inadeguatezza di programmi che siano esclusivamente incentrati sulla mediazione, il counseling, o il trattamento della rabbia, delle dipendenze e delle patologie (Kelly, 2008): approcci del genere tendono a disancorare i comportamenti violenti dalle loro premesse socio-culturali, mediante forme di individualizzazione e patologizzazione e rischiano altresì di colpevolizzare le vittime (Maiuro e Eberle, 2008). Il che non esclude la possibilità di prevedere, nei programmi, moduli trattamentali connotati anche in tal senso (Geldschläger e Al., 2014).
In conformità con la pubblicistica internazionale (Hester e Lilley, 2014; Westmarland e Al. 2010; Westmarland e Kelly, 2012), un programma del genere non dovrebbe limitarsi all’interruzione del comportamento abusante, ma estendersi a un range più ampio e articolato di fattori soggettivi e relazionali, che si focalizzino sulla prospettiva della vittima.
La richiamata Convenzione richiede che siano implementati due diversi tipi di programmi:
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quelli rivolti agli autori di atti di violenza domestica, per incoraggiarli ad adottare comportamenti non violenti nelle relazioni interpersonali, al fine di prevenire nuove violenze e modificare i modelli comportamentali violenti;
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quelli finalizzati a prevenire la recidiva, in particolare per i reati di natura sessuale, da attuarsi sia all’interno che all’esterno dell’ambito carcerario.
In Italia, le azioni di intervento e trattamento in esame sono state introdotte dal Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (2015-2017) previsto dal decreto-legge 93/2013.
Una recente indagine ha rilevato la presenza di 59 programmi attivi in Italia al 31 dicembre 2017, di cui 5 operano con gli autori di violenza esclusivamente all’interno degli istituti penitenziari. Questi ultimi non sono stati inclusi nello studio, focalizzato sull’analisi dei soli programmi accessibili, all’esterno delle mura carcerarie, a tutti gli uomini maltrattanti che desiderano (o sono sollecitati a) compiere un percorso di responsabilizzazione e di riflessione sulle condotte violente. La costituzione, nel nostro Paese, dei primi programmi di trattamento rivolti agli autori di violenza accessibili al di fuori delle istituzioni totali risale al 2009.
Considerando le sole sedi principali delle relative strutture, e l’insieme dei punti accesso sul territorio, Emilia-Romagna e Lombardia risultano essere le regioni caratterizzate da un’offerta più capillare.
3.2. L’approccio e le finalità dei programmi
A livello europeo, Hester e Lilley (2014) affermano che i programmi dovrebbero analizzare e comprendere i diversi, molteplici fattori che influenzano, a tutti i livelli, le modalità attraverso cui gli uomini assumono la responsabilità sui comportamenti violenti messi in atto. Dovrebbero, allo scopo, integrare metodologie idonee a indurre un’evoluzione negli atteggiamenti e nei comportamenti individuali, tramite approcci in grado di incidere sulle credenze culturali socialmente condivise.
Le Linee guida redatte dalla rete europea Work With Perpetrators (WWP) e volte a sviluppare standard minimi in tal senso, affermano che i programmi dovrebbero integrare approcci culturali e clinici (WWP, 2018).
In Italia si registra una particolare eterogeneità negli approcci adottati dai programmi:
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l’80,8% dei programmi impiega metodi di trattamento psicoterapeutico;
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il 65,4% fa riferimento a un approccio di tipo socio/psico-educativo;
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il 40,4% si rifà ad un approccio di tipo culturale;
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il 25% ricorre a un altro tipo di approccio.
I programmi che adottano uno o più metodi psicoterapeutici utilizzano più spesso:
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un orientamento di tipo cognitivo-comportamentale (22 programmi);
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orientamenti di tipo sistemico-familiare (13 programmi);
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approcci psicoanalitici (9 programmi);
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altri tipi di orientamenti (10 programmi), tra cui lo psicodinamico, il rogersiano, l’umanistico e il bioenergetico.
Tra gli approcci non psicoterapeutici, adottati dal 25% dei programmi italiani, si segnalano in particolare:
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l’auto-mutuo aiuto (adottato da 9 programmi);
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l’approccio criminologico (2 programmi).
Ulteriori approcci residuali, spesso combinati con quelli adottati più di frequente sono:
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l’arte terapia;
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i gruppi di parola:
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l’approccio narrativo.
Per quanto riguarda, in particolare, l’approccio psicoterapeutico:
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il 21,2% adotta un approccio psicoterapeutico puro;
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il 59,6% adotta un approccio psicoterapeutico combinato con altri.
Il modello psicoterapeutico puro non risulta in linea con le indicazioni della rete WWP che, come abbiamo visto, evidenziano piuttosto la necessità di integrare approccio clinico e culturale, nella prospettiva di ottenere nel soggetto maltrattante un cambiamento profondo, idoneo a porre in discussione alla radice gli atteggiamenti e i comportamenti che gli uomini in trattamento hanno verso le donne.
Quanto agli obiettivi e alle finalità: le raccomandazioni del Consiglio d’Europa insistono sull’importanza di pervenire alla responsabilizzazione degli autori rispetto alla violenza agita e al miglioramento delle loro relazioni familiari e sociali (Kelly, 2008; Hester e Lilley, 2014).
In Italia, l’analisi degli obiettivi del trattamento dichiarati dai programmi pone in evidenza che:
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il 65,4% mira a fornire agli autori di violenza strumenti per la gestione non violenta dei conflitti;
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il 61,5% intende promuovere processi di cambiamento nelle dinamiche relazionali che ingenerano violenza;
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il 57,7% si impegna ad accompagnare i processi di gestione della frustrazione e della rabbia. Secondo gli standard minimi indicati dal Consiglio d’Europa, sussistono invero riserve su trattamenti incentrati appunto sulla sola gestione della rabbia (Kelly, 2008);
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il 51,9% si impegna ad accrescere la capacità riflessiva degli uomini maltrattanti;
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il 44,2% è orientato a potenziare la consapevolezza sui ruoli di genere, connessi alla maschilità e alla paternità. Fine, quest’ultimo, effettivamente conforme a un approccio volto a problematizzare le radici culturali della violenza di genere.
“Il grande scoglio resta un sistema, il nostro, permeato dal machismo”, spiega uno psicoterapeuta che opera nel centro di Forlì, cui abbiamo già accennato. “Il problema è di tipo: chi maltratta la propria compagna quasi sempre non riconosce di vivere un disagio e questo fa sì che difficilmente ci si rivolga a un centro spontaneamente”, aggiunge un suo collega.
Parlando delle violenze da lui poste in essere nei confronti della sua compagna, il paziente della struttura di Forlì, con le cui parole abbiamo aperto, afferma: “Lei non faceva nulla di male, ma chi agisce violenza pensa sempre che i propri scatti d’ira dipendano dagli altri”.
Il percorso della consapevolezza è molto lungo e complesso, l’impegno ad abbattere stereotipi culturali che sembrano irremovibili può risultare fin troppo arduo. Ma iniziative come quella di questo convegno ci ricordano che nessuno di noi può sottrarsi all’impegno di concorrere a tale, imprescindibile battaglia di civiltà.
L’arma della prevenzione contro la violenza di genere, ad Avezzano il convegno di Fidapa Bwp Italy