Massa d’Albe. Insieme a Archie Sheep, Herbie Hancock, Sonny Rollins, Abdullah Ibrahim, classe 1934, è tra i più grandi jazzisti viventi. Il 4 agosto suonerà nel magico anfiteatro romano di Alba Fucens, dove lo scorso anno un altro gigante del jazz internazionale, Jan Garbarek, registrò il tutto esaurito.
Nato a Città del Capo nel 1934, Abdullah Ibrahim (prima della conversione all’Islam era già diventato famoso col nome di Dollar Brand) è uno dei pochi musicisti africani ad aver raggiunto un ruolo da protagonista nel jazz mondiale. Ed è sicuramente il sommo rappresentante del jazz sudafricano: il suo disco di esordio (Jazz Epistle Verse 1, 1960) è stato il primo Lp di jazz realizzato da artisti di colore in quel paese. Prima dell’adozione del nome islamico – si distingue sulla scena sudafricana già nel cuore degli anni cinquanta; nel ‘59 si formano, con Brand al piano e ai fiati Kippie Moeketsi, Hugh Masekela e Jonas Gwangwa, i Jazz Epistles, gruppo – all’epoca già in sintonia con l’hard bop d’oltre Atlantico – cruciale per gli sviluppi del jazz sudafricano. In seguito all’inasprirsi dell’apartheid e alle continue ingerenze governative nella vita dei musicisti, Abdullah Ibrahim lascia il Sud Africa nel 1962. Si trasferisce in Svizzera, dove trova un ingaggio a lungo termine al Club Africana di Zurigo.
Convinto dalla compagna di Ibrahim, Duke Ellington assiste a una delle sue performance in trio. Ne rimane talmente colpito da ‘sponsorizzarne’ subito un’incisione discografica: Duke Ellington Presents The Dollar Brand Trio (1963). Ellington ha visto giusto: nel giro di pochi anni l’ascesa di Ibrahim nel mondo del jazz è rapidissima. Nel 1965 si sposta a New York, dove interagisce con nomi del calibro di Don Cherry, Ornette Coleman, John Coltrane, Pharoah Sanders, Cecil Taylor, Archie Shepp, Billy Higgins, Elvin Jones. In alcune occasioni sostituisce addirittura Ellington alla guida della sua orchestra. Gli anni Settanta sono un decennio di intensa attività (spiccano incisioni con Shepp, Cherry, Max Roach). Da allora la sua carriera non ha conosciuto pause né cedimenti: difficile sintetizzare tra una miriade di eventi significativi (dal settetto che incide Ekaya, alle produzioni sinfoniche). Rientrato in Sudafrica nel 1990, su invito di Nelson Mandela dopo la sua scarcerazione, Abdullah Ibrahim non è venuto mai meno al suo ruolo di vessillo di una musicalità profondamente legata alle proprie radici e portatrice di messaggi universali. Ma l’aspetto più suggestivo e rappresentativo della sua arte è l’esibizione in solo, documentata su numerosi dischi e in una continua attività dal vivo. È in questo contesto che emerge compiutamente il suo stile distintivo dalla possente definizione ritmica, sontuosa e iterativa, e dai disegni melodici di palpitante dolcezza, nostalgici, intensamente evocativi. Ed è proprio un piano solo l’ultimo disco aggiuntosi alla sua sterminata discografia (oltre cento titoli): Solotude (2020), che dimostra come questa icona del jazz africano sia ancora al suo zenit artistico.