Avezzano. Fornaio, pastore e poi campione. La storia di Vito Taccone inizia così, tra le difficoltà riscontrate nel portare avanti una famiglia e la passione per la bicicletta. Papà Gaetano se n’era andato troppo presto e a mamma Marietta servivano i soldi per sfamare i suoi ragazzi nel cuore di Avezzano, a piazza Cavour dove tutti li conoscevano e gli volevano bene.
Vito amava già le due ruote e grazie alla bicicletta portò a casa i primi soldi consegnando il pane. I coetanei iniziavano a sfoggiare le prime bici moderne, lui invece andava in giro con un vecchio triciclo porta-pane, ma quando c’era da pedalare nessuno lo batteva. Lavorando per 6 settimane con la paga riuscì a comprarsi anche lui una bella bicicletta che poi si rivelò la sua fortuna. Iniziò a correre per gioco, proprio come un “selvaggio” e quando gli proposero di fare qualche gara lui si preoccupò per la sua famiglia alla quale doveva portare i soldi per mangiare.
Dalla passione alle gare il passo fu breve: nel 1961 divenne professionista ed esordì al giro d’Italia. Vinse la sua prima gara a Potenza e tutti capirono che era un talento naturale. “Andò al giro di Lombardia e la sera annunciò a Sergio Neri che il giorno dopo avrebbe vinto”, ha raccontato il figlio Cristiano, “e fu proprio così. Mio padre era determinato e voleva emergere. Lui amava la sfida, amava lottare e vincere. A fine carriera Sergio Zavoli gli propose di andare a lavorare in Rai, ma non accettò”.
Taccone ebbe tante proposte, ma lui voleva creare qualcosa per sé stesso e voleva partire da Avezzano, la sua terra. Nacque così la ricetta dello storico amaro Taccone. Un liquore unico che aprì la strada a tanti altri prodotti ancora oggi realizzati nello stabilimento di Massa d’Albe come Sambuca e Ponchè. “Chi mise in moto la giostra fu mia madre perché mio padre pur avendo l’idea continuò a correre e lei si occupò di tutto”, ha precisato il figlio, “lui diceva che non si vince solo all’arrivo, ma si vince anche andando a trovare la vittoria giorno dopo giorno. Tra una corsa e l’altra mio padre cominciò con la solita determinazione ad andare in giro e vendere il suo amaro che fu un successo. Chi non avrebbe comprato l’amaro Taccone?”.
Dall’amaro si passò poi all’abbigliamento sportivo, qualcosa di nicchia e al tempo stesso di unico che la famiglia Taccone iniziò a produrre e vendere. “L’abbigliamento per ciclismo non poteva non chiamarsi Taccone”, ha concluso Cristiano, “mio padre all’inizio era scettico, ma poi capì che volevo fare un progetto di qualità e lo benedì. Dalla sua improvvisa morte io e mia madre abbiamo portato avanti tutto e ancora oggi ci occupiamo delle due aziende grazie a una tradizione di famiglia che va avanti da anni. Abbiamo fatto un restyling dell’amaro con un’etichetta nuova e una bottiglia nuova, non lo vendiamo più all’estero ma per lo più tra l’Abruzzo e Roma. Produciamo circa 30mila bottiglie l’anno e continuiamo così a far vivere un grande amore del Camoscio d’Abruzzo”.