Avezzano. In carcere sette mesi per un errore nelle intercettazioni. E’ accaduto a un camionista di San Benedetto dei Marsi, Francesco Di Nicola, che ha ottenuto dalla Corte d’Appello di Roma un risarcimento per ingiusta detenzione di 50mila euro. L’autotrasportatore era finito in cella a causa delle intercettazioni tra altre persone che lo chiamavano in causa, ma con un soprannome che non era il suo, bensì di un altro. Nelle telefonate si parlava di un certo Francesco detto Broccolone e si sosteneva che aveva trasportato dalla Spagna 22 chili di droga nel periodo dal 30 maggio al 3 giugno 2005. Ma il soprannome di Di Nicola è Francesco detto Cozzolino che in quella data si trovava da tutt’altra parte. L’ultimo capitolo della drammatica storia del camionista di San Benedetto, difeso dagli avvocato Roberto Verdecchia e Sara Capoccetti, è stata scritto dalla Corte d’Appello di Roma che gli ha riconosciuto una somma di 50mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. «Quella mattina stavo rientrando da un viaggio nello stabilimento dove lavoro», racconta Di Nicola, «avevo appena salutato i cani da guardia quando entrò un’Alfa 156 con due persone a bordo. “La dobbiamo arrestare, faccia allontanare i cani”, mi dissero. Andai a casa e dissero a mia moglie che dovevano portarmi all’Aquila. Fu drammatico. Pochi giorni dopo, il 12 dicembre 2007, mi prelevarono intorno alle 9.30 sostenendo che dovevo essere ancora interrogato. Da allora a casa non tornai più». Nel carcere dell’Aquila cominciò un’odissea interminabile. Di Nicola dimagrì ben 25 chili. Cominciò a inserirsi nel tessuto sociale del carcere. «Un giorno», ricorda, «mi misero in cella con un ragazzotto di Celano. Dopo quattro mesi iniziai a fare il cuoco del carcere. Una volta vidi anche Sandokan (Francesco Schiavone, uno dei capi del clan dei casalesi). La mia famiglia mi diceva che era tutto a posto per non darmi preoccupazioni». «Ci voltarono tutti le spalle», racconta la figlia Domenica che si è occupata di tutte le questioni burocratiche riguardanti la vicenda, «e non è stato facile». Lei porta sul braccio un tatuaggio con una frase di Jovanotti: «a te che sei la sostanza dei giorni miei». La stessa scritta se l’è fatta tatuare anche il padre. Il 5 luglio la svolta. «Ero sulla brandina della cella e davanti agli occhi immaginai la figura di Santa Maria Goretti che avevo tanto supplicato. Mi disse che tutto si sarebbe risolto e mi invitò ad avere fede. Dopo due giorni arrivarono quattro agenti penitenziari e mi dissero che ero libero, non ai domiciliari, proprio libero. Mi sentii male tanto che furono costretti a rianimarmi». Poi la parola fine al caso. «Quando abbiamo vinto il processo per ingiusta detenzione mi è tornato in mente il carcere», afferma Francesco Di Nicola, «io non ce l’ho con la giustizia, ma i modi utilizzati per arrestare le persone quelli sì. Oggi sento soltanto la necessità di dire grazie al mio avvocato e a mia figlia. Quei soldi io non voglio utilizzarli mai per me, perché non c’è somma che possa restituirmi quei sette mesi di libertà».