Avezzano. Salvare i negozi dei borghi alpini e appenninici. È un monito forte quello che Uncem rilancia oggi. Difendere e valorizzare i negozi sotto casa, schiacciati dai supermercati aperti dagli anni ottanta oggi, dai centri commerciali entrati nell’immaginario collettivo dagli anni novanta come luogo dove spendere, comprare, tanto e spesso troppo, mangiare, passare del tempo, (forse) divertirsi. Dove fare la grande spesa per la settimana o più. Dove portare bambini, nonni, zia, suocera. I dati di vendita diffusi ultimamente dalle stesse catene (perlopiù francesi) confermano che il modello sta entrando in crisi. I numeri scendono. I fatturati interrogano. Sempre meno si parte con l’auto, con tutta la famiglia al seguito, e si passano ore e ore nel grandi centri distribuiti nella periferia urbana. Lo sa bene Carrefour ad esempio, che sta aprendo negozi molto più piccoli nei centri delle città, massimo 200 metri quadrati, dove trovare tutto sotto casa.
Già, sotto casa. Nei paesi montani con meno di mille abitanti, dove ci si conosce tutti, il negozio sotto casa è l’ancoraggio della comunità. Spesso nella piazza, vicino a chiesa e municipio. Luogo di aggregazione prima ancora che di acquisto. Punto dove comprare alimentari, frutta, verdura, prosciutto e formaggi, biscotti e succhi di frutta, poi sigarette e giornali. E dove bere una birra con gli amici. Punti dove matura la comunità. Come al bar, dall’altra parte della piazza. Nelle località poco turistiche queste “botteghe” con oltre mezzo secolo di storia mantengono un particolare fascino. Antiche, ma non vecchie. Originali, ma non fastidiose. Eppure, al di là di retoriche troppo facili e di semplicistiche filosofie del territorio, un dato è evidente a tutti, risalendo le vallate: troppi negozi di paese negli ultimi due decenni hanno chiuso. Solo in Piemonte, oltre 70 Comuni non hanno più un negozio. Duecento su 1.205 hanno solo un esercizio commerciale. Sono cioè a rischio desertificazione. Fino ad alcuni anni fa, la Regione stanziava ogni anno qualche milione di euro per aiutare i proprietari dei piccoli negozi. Un bando che aveva al suo interno tutto il valore sociale e antropologico necessario, prima ancora che economico. Un’azione “culturale” viene da dire. Poi, più niente. Di certo servono scelte politiche chiare, ma anche una diversa consapevolezza della comunità che vive su un territorio. Chi ha responsabilità istituzionali (sindaci, consiglieri, assessori, presidenti di Comunità e Unioni montane…) deve fare la sua parte: spingere Regione e Parlamento a varare una legge che individui sgravi fiscali e minor carico burocratico per chi possiede un negozio in un Comune montano, per chi avvia un’attività nelle Terre Alte, chi vuole potenziare una piccola impresa, per chi apre una partita iva. Devono poi essere incentivati i centri multifunzionali, negoziche vengono prodotti e allo stesso tempo svolgono dei servizi. Ce ne sono già alcuni. Alimentari che hanno anche il dispensario farmaceutico, edicole che sono anche cartolerie. Ma bisogna fare di più. Con un accordo nazionale con Poste italiane ad esempio, o con altri player. Nei “centri multifunzionali è possibile concentrare la fornitura di una pluralità di servizi, in materia ambientale, sociale, energetica, scolastica, postale, artigianale, turistica, commerciale, di comunicazione e sicurezza, nonché lo svolgimento di attività di volontariato e associazionismo culturale”.
Se è vero che nelle aree montane quando chiude una scuola chiude un Comune, quando chiude un negozio, intere fasce di popolazione sono a rischio. Per questo da una parte deve essere favorito l’e-commerce delle produzioni tipiche dei territori, anche partendo dai negozi esistenti (un buon e-commerce di medio fatturato ha la “base” in un esercizio commerciale o in una piccola impresa agricola produttrice), dall’altra vi devono essere supporti economici pubblici per la consegna dei prodotti agli anziani, anche grazie alla rete di volontariato. Porta a porta, come fatto alcuni anni fa da diverse Comunità montane in italia, con costi progettuali bassissimi, ma altissimi livelli di efficienza e miglioramento della qualità della vita della terza età. Due facce della stessa medaglia. Salvare i piccoli negozi di montagna passa dalla nuova consapevolezza, dalla nuova capacità culturale di chi vive e frequenta la montagna. Scegliere il negozio sotto casa vuol dire spesso avere un aumento del 10-20 per cento del costo del prodotto (non sempre), che comunque – basta pensarci e fare quattro calcoli – compensa il costo dell’auto per quei dieci, a volte venti, chilometri per raggiungere il centro commerciale. Dove peraltro, l’offerta di turno ti fa comprare maggiori quantità, e comunque anche altri prodotti che vedi, tra le luci e le commesse sorridenti, si spera, e che ti “invitano” allo scaffale. Tutto cambia nel negozio di paese. Allora, un appello può essere utile. Chi frequenta la montagna per sciare, per una ciaspolata, per una semplice ma importante giornata di relax, non si porti da casa panino, acqua, salame, formaggio. Si fermi a comprarli nel negozio della piazza del paese. Si fermi e pensi al grande valore del suo gesto. Chi vive in montagna, si faccia due calcoli e scelga la dimensione sociale vera, l’esercizio di prossimità, che conosce benissimo sia per i prodotti che vende, sia per il proprietario che te li offre. “Compra in valle, la Montagna vivrà” era il claim scelto dalla Camera di Commercio e poi anche da Uncem alcuni anni fa. Così deve essere oggi. Scegliere il negozio sotto casa. Volergli bene. Chiedere anche che sia migliore, proporgli novità, opportunità, modernità, sorriso, accoglienza. Non avere paura. Scegliere di salvare un negozio, un bar, un paese. Così, solo comprando in valle, la montagna vivrà.