Avezzano. Lido Di Cioccio, per lungo tempo assistente di laboratorio nell’istituto agrario A. Serpieri di Avezzano, è riuscito a ricreare in vitro una piantina del rarissimo giaggiolo lacustre del Fucino, un fiore considerato scomparso con il prosciugamento del lago avvenuto nel secolo scorso. Nell’articolo che segue Di Cioccio ci racconta come è riuscito in quest’impresa ardua e affascinante.
C’era una volta una pianta erbacea perenne che viveva lungo le sponde di un antico lago. Lo circondava con le sue infinite compagne per tutta l’estensione e durante le giornate di maggio, faceva riflettere sull’acqua antica, il giallo oro della copiosa fioritura. Per chi non lo avesse ancora immaginato, il riferimento va all’ormai scomparso lago del Fucino e al giaggiolo palustre autoctono, svanito insieme alla moltitudine delle specie ittiche, in seguito allo svuotamento del bacino avvenuto un secolo e mezzo fa.
Qualche anno fa, attraversando la fertile pianura del Fucino, due signori appassionati della natura e dei suoi colori, sono stati colpiti dalla bellezza di un isolato cespo di giaggiolo fiorito, all’interno di un canale che costeggia la statale per Avezzano. Un breve sguardo negli occhi e subito balena nei due la simultanea idea di venire in possesso, di un germoglio della pianta, che dal rizoma di base, affiorava dall’acqua. Disteso e proteso a testa in giù lungo l’argine inclinato della sponda del canale; tenuto in trazione per le caviglie da due robuste mani dalle unghie smaltate, veniva in maniera rocambolesca, strappato dal fango e dall’acqua il bottino desiderato.
Questo prezioso materiale vegetale nonostante li avesse imbrattati di sporco, fa decidere i due. Incuranti di tornare a casa per cambiarsi d’abbigliamento e incuranti dell’aspetto, dopo pochi minuti di macchina, sono arrivati nel laboratorio didattico di micropropagazione delle piante dell’istituto agrario di Avezzano, dove, mediante la tecnica del recupero delle piante in vitro, è stato dato seguito al prelievo dell’espianto, con la speranza di poterne conservare il germoplasma. Oggi la pianta del giaggiolo palustre ha uno scarso valore economico ma nel passato non troppo lontano e prima dell’avvento delle fibre e materie plastiche, le foglie del giaggiolo come pure le foglie della tifa (taton alla sambenedettese) hanno avuto un’importanza straordinaria.
La gran parte degli oggetti, strumenti d’uso quotidiano, come contenitori rustici, cassette, sacchi, borse, cesti e canestri venivano realizzati intrecciando rami modellabili di salice oppure foglie di piante acquatiche come il giaggiolo palustre. I contenitori di terracotta o vetro come bottiglie e damigiane venivano rivestiti con arte certosina dal materiale di defogliazione delle piante acquatiche. Lo stesso cordame, di tutte le lunghezze e spessore, prendeva forma e acquisiva utilizzo dall’intreccio delle lunghe e dritte foglie acquatiche che prosperavano nel lago.
Ceste e cordame ricavate dalla lavorazione delle lunghe foglie delle piante rivierasche del lago, costituivano il materiale fondamentale trasportato dai barcaioli pescatori di allora. Le ceste in particolare, con delle aperture molto strette da una parte, venivano legate con delle lunghe corde e immerse dove le acque del lago erano più profonde. I pesci, una volta entrati in quell’imbocco stretto della cesta, ne rimanevano intrappolati. Verso la seconda metà degli anni ottanta ho avuto l’occasione di lavorare all’interno di un’azienda agricola posta ai piedi di un bellissimo colle dove sorge il paese di Capestrano.
A quell’epoca tanti erano i contadini che scendevano a valle dal paese e che si affaccendavano nella coltivazione di quei terreni poveri, ghiaiosi e fortemente siccitosi durante l’estate. Ci si conosceva tutti e spesso si disquisiva sul perché di tanta siccità benché quei campi fossero solcati dal fiume Tirino. Si ragionava delle tecniche irrigue adottate sulla piana del Fucino e della Marsica come luogo della mia provenienza. Un anziano signore, dall’aspetto colto e intelligente, un giorno, trattenendosi un po’ più del solito, cominciò a raccontare una storiella a lui raccontata sin dalla sua infanzia dal suo papà. Il nonno del papà di questo anziano signore era vissuto nel periodo in cui ancora esisteva il lago Fucino. Secondo questo racconto, in quel secolo i paesi di Capestrano, Ofena e dintorni godevano di un clima discreto che assicurava benessere ai cittadini e abbondanti raccolti alle colture nei campi. In estate, neanche allora le precipitazioni piovose erano abbondanti, però, a intervalli regolari di giorni e quasi sempre alla stessa ora, dalle spalle del paese, visto dal basso della valle e rivolti verso ovest, si elevavano precipitosamente verso l’alto e in rapido avanzamento piccole formazioni nuvolose nere e grigie.
A detta di quel signore, “questi ammassi di nubi vorticosi e mutevoli sembravano cavalli imbizzarriti che trainavano carrozze cariche di passeggeri impazienti di arrivare a destinazione”. Nel giro di pochi minuti, precipitosamente dal cielo scendeva giù un rovescio di pioggia salutare e ristoratrice, capace di mutare nelle ore successive l’aspetto del paesaggio e l’insopportabile caldo afoso di piena estate. Secondo le convinzioni di questo attempato signore e della buonanima del suo bisnonno, l’origine di quel fenomeno consisteva nell’evaporazione della grande massa d’acqua contenuta nell’alveo dell’allora lago marsicano. Con la scomparsa del lago è venuta a mancare la formazione di quella famosa nuvola tanto cara ai cittadini di Ofena e Capestrano, che all’occorrenza, a quei tempi, riusciva a mitigate il clima nel cuore del forno d’Abruzzo. Lido Di Cioccio