Avezzano. Sessantaquattresimo appuntamento con Psicotime, la rubrica in collaborazione con la psicologa Giulia D’Ascanio. I bambini non smettono mai di chiedere ciò di cui necessitano. Nemmeno da adulti. Trovano solo altri modi per farlo, altre persone a cui chiedere, ma mai, per nessun motivo, la parte infantile che si portano dentro si rassegna a ciò che non ha avuto. Le dipendenti affettive hanno avuto genitori che non si sono sintonizzati con i loro bisogni emotivi, con i loro sentimenti, con i loro timori e con l’amore di cui avevano bisogno. Le rare volte che erano più disponibili e amorevoli, erano così inaspettate ed imprevedibili che le loro figlie rimanevano in un’attesa perenne ed instancabile di quel momento tanto desiderato in cui le avrebbero lodate, in cui le avrebbero abbracciate, in cui avrebbero percepito le proprie paure, insicurezze o la loro tristezza. Succede che la relazione ambivalente tra madri e figli, in cui la dose d’amore è somministrata in maniera intermittente ed imprevedibile, condiziona il modo in cui i bambini, una volta diventati grandi, vivranno le loro relazioni sentimentali. È probabile che questi bambini apprendano presto che dell’amore non si può esser certi, che bisogna comportarsi bene per meritarselo, e che si deve attendere il tempo stabilito dall’altro, per ottenerne quanto basta (ammesso che basti). Un legame così strutturato vincola il soggetto più dipendente a quello più forte in modo più saldo (ma non per questo più sano) di quanto non faccia un legame stabile, sicuro. Volendo appellarci a una metafora: il bambino affamato d’amore materno rifiuterà una pizza con le patatine pur di mangiare le briciole che ogni tanto la madre sarà in grado di mettergli nel piatto.
La dinamica, dunque, può essere così riassunta: la bambina viene al mondo in una famiglia in cui i suoi bisogni non vengono visti, per motivi che possono anche essere molto diversi e molto spesso inconsapevoli: una madre depressa, un padre coinvolto in un crollo economico, la nascita di un fratello più bisognoso, un genitore narcisista, un genitore gravemente malato, uno abusante, un lutto improvviso, l’abbandono di uno o di entrambi i genitori ecc… Impara così precocemente a non disturbare ulteriormente: “E’ già tutto così difficile per mamma e papà, non posso mettermici anche io”. Impara anche ad aspettare che uno dei due o entrambi diventino disponibili, senza fare capricci, in modo da ottenere quel poco d’amore che le basta per la sopravvivenza emotiva. Va da sé, quindi, che aspettare è la norma, e che per amore si può aspettare anche tutta la vita. In questo scenario, mette a punto delle strategie per assicurarsi la somministrazione di una dose d’amore anche minima: si comporterà bene, farà la brava, prima o poi – pensa – qualcuno si accorgerà di lei. Quindi diventerà brava davvero: sarà brava a scuola, brava all’università, brava nel lavoro. Glielo diranno in tanti che è brava tranne, probabilmente, le persone dalle quali ha atteso per tutta la sua esistenza di sentirselo dire: “Hai fatto solo il tuo dovere: cosa vuoi che ti dica? Studiare è un dovere: io pago i tuoi studi e tu studi, non ti è chiesto altro”. A quel punto il vuoto interiore, scavato giorno dopo giorno da figure che dovrebbero essere affettive ed invece (nella migliore delle ipotesi) sono distratte, o (nella peggiore) francamente svalutanti o maltrattanti, diventa voragine.
Ecco dunque che la bambina divenuta adulta inizierà a fantasticare sull’immagine di un partner perfetto che porterà quell’amore, quelle attenzioni, quelle carezze e quelle lodi mai avute nella sua vita. “Se mamma e papà non sono riusciti a darmelo – dice a se stessa – un uomo lo farà”. E rimane in attesa, come quando era piccola. Stavolta però attende il salvatore, l’eroe che riempirà di amore infinito e protezione la voragine che si è creata tanto tempo prima, che la aiuterà a far fronte ad ogni problema, come fosse l’antidoto ad ogni male. E quando lui arriva, lei, che ne ha così tanto disperatamente bisogno, non sarà in grado di valutarlo realmente, applicando i criteri dell’amore. Sarà il bisogno a guidarla, il bisogno che porta spesso a molti errori di valutazione. Perché l’amore, al contrario di come si dice, non è cieco affatto; è il bisogno a render ciechi. Insieme alla fantasia del principe azzurro nasce così la necessità di costituire e mantenere con l’altro un rapporto fusionale in cui i confini personali sfumano gradualmente, fino a perdersi del tutto. Se l’altro infatti è Il salvatore, l’antidoto ad ogni male, rompere con lui non è pensabile: sarebbe come morire. La dipendente affettiva così si annulla nell’altro, nella convinzione che il massimo della gratificazione è che lui sia felice, non curandosi affatto di ciò che potrebbe rendere felice lei, non riuscendo più a riconoscere quali sono i suoi desideri, quali le sue passioni, cosa vorrebbe fare della sua vita, e pensando di scongiurare, allo stesso tempo, la paura d’essere abbandonata, sempre in agguato. Ha imparato molto presto che se farà la brava l’altro l’amerà. Lo farà anche e soprattutto se l’altro non lo merita, anche e soprattutto se l’altro non somministra che briciole, del resto non ha fatto altro che questo, per tutta la sua vita, credendo che così è l’amore e che è così che si fa.
La dipendenza affettiva è che un modo disfunzionale di stare nelle relazioni. È un modo che le bambine apprendono da piccole ma che le donne che oggi sono diventate possono (e devono) abbandonare, a patto che siano disposte ad accogliere l’aiuto degli altri, anche specialistico se necessario, e che desiderino aprirsi a modalità più sane ed equilibrate di vivere le relazioni, nonostante l’impegno che destrutturare una esperienza relazionale così arcaica possa comportare.
Del resto, per fortuna, d’imparare non si smette mai. E nemmeno d’amare.
Giulia D’Ascanio, psicologa clinica