Avezzano. Quarantaquattresimo appuntamento con Psicotime, la rubrica in collaborazione con la psicologa Giulia D’ascanio. Sto bene. Due parole rassicuranti e sintetiche che pronunciamo spesso, ma altrettanto spesso anche quando in realtà non è così.
In tono colloquiale, un “sto bene” detto per riservatezza o per non dare troppe spiegazioni a qualcuno con cui non abbiamo troppa confidenza, può starci. Il problema insorge quando “sto bene” diventa una generalizzazione e lo ripetiamo anche a noi stesse e ai nostri affetti più intimi, finendo per attuare un evitamento emozionale.
Quel “sto Bene” arriva a nascondere tanta sofferenza, a camuffarla e addirittura a negarla.
Fingere che tutto stia andando al meglio
Quando affermi che “va tutto bene”, ma dentro di te senti emozioni caotiche e difficili da interpretare, stai negando a te stessa i tuoi veri sentimenti, ti stai deprivando di un’esperienza emotiva significativa.
Dietro a un “Sto bene”, possono nascondersi:
- emozioni difficili,
- conflitti,
- dubbi e paure,
- vissuti mai elaborati,
- vergogna,
- sensi di colpa,
- sensazione di non essere abbastanza,
- senso di vuoto emotivo,
- umore depresso,
- convinzione di essere incompreso,
- verità mai accettate
Nel rapportarci agli altri, vogliamo che tutti pensino che la nostra vita funziona bene, che noi “funzioniamo bene”, che siamo capaci, forti. Desideriamo dare un’immagine integra quando in realtà dentro di noi siamo a pezzi. Tra un “sto bene” e l’altro, dentro di noi si sta svolgendo una lotta e la nostra vita a tratti sembra ingestibile.
La corazza che mostriamo agli altri è l’incarnazione del nostro evitamento, ci evita ogni confronto e soprattutto ci evita di dover affrontare i nostri demoni interiori (quei conflitti irrisolti che hanno radici passate). Quando non vogliano realmente fare i conti con quello che sentiamo dentro di noi, tendiamo a concentrarci su quello che c’è al di fuori. In questo scenario, le strategie che mettiamo in atto sono molteplici: c’è chi si prodiga per il prossimo, cercando di risolvere i problemi degli altri piuttosto che dover affrontare i propri.
C’è chi diventa ipercritico e sfoga le proprie frustrazioni sulle mancanze degli altri, così da non dover guardare le mancanze che si porta dentro. Molte persone si trasformano in autentiche crocerossine e si adoperano per la salvezza dell’altro cercando in realtà la propria di salvezza. Gli scenari sono molteplici e tutti hanno lo stesso minimo comune denominatore: il rifiuto di districare il caos che c’è dentro di sé.
Quel “sto bene” per non deludere
Le radici di quel “sto bene” sono molto profonde: impariamo a negare i nostri malesseri per non essere di peso all’altro importante. Tutto è riconducibile ai modelli genitoriali che abbiamo avuto e al loro rapporto con le emozioni che provavamo quando eravamo bambini.
Un genitore, fin dalla nascita del proprio figlio, dovrebbe fungere da facilitatore emotivo e riuscire a operare un “contenimento emotivo” quando il bambino ancora non sa gestire le proprie emozioni. Quando questo non avviene, può succedere che il genitore stesso ammonisca le reazioni emotive e non è in grado di sintonizzarsi con i bisogni di sostegno e protezione del bambino. Ecco alcuni esempi:
- “Non piangere sennò fai preoccupare la mamma”
- “I bambini buoni non fanno capricci”
- “Se tu piangi la mamma sta tanto male”
- Rispondere ai capricci del figlio con urla aggressive ancora più forti
- Rispondere alla collera con altra collera
- “I bambini stupidi piangono”
- “Vedi Michele come è buono, lui non piange”
- “Stai piangendo per una sciocchezza”
- Risposte di ansia eccessiva a una problematica emotiva/fisica del bambino
- Allarmismi eccessivi a ogni reazione fisica/emotiva del piccolo
Le reazioni dei genitori ai malesseri dei bambini sono la prima esperienza di cura che facciamo. È da qui che impariamo come prenderci cura di noi, quanto possiamo contare sull’altro in caso di un nostro malessere; è da qui che impariamo quanto possiamo esprimere le nostre emozioni. Se le uniche emozioni approvate dai nostri genitori erano quelle di gioia, impariamo che soffrire è sbagliato e che quando si soffre, meglio tenersi la cosa per sé, tanto ogni manifestazione è inutile e controproducente.
Ecco perché da adulti ci sembra più facile evitare i sentimenti difficili e covare tutto dentro. Nessuno ci ha insegnato a gestire la nostra “carica emotiva” in modo funzionale. Così, anno dopo anno, abbiamo accumulato un gran numero di conflitti senza mai dare alle “emozioni negative” un preciso significato. Abbiamo imparato a tacere la sofferenza per non deludere le aspettative dell’altro o per non essere sopraffatti da un ulteriore carico. Abbiamo capito che possiamo contare solo sulle nostre forze.
Ecco una notizia: ciò che hai imparato da bambino, oggi, non è più vero!
Dare significato alla sofferenza
La mancata espressione delle emozioni negative, a lungo andare, può essere devastante. Se hai negato i tuoi sentimenti e le tue emozioni per molti anni, mettere a fuoco ciò che ti porti dentro non sarà facile. Se vuoi avvicinarti a un autentico “sto bene” puoi partire proprio dai tuoi bisogni insoddisfatti. Se dai significato alla sofferenza e ai tuoi disagi, ti sarà più semplice elaborarli.
Ricorda che tutto ciò che hai imparato durante l’infanzia, oggi non ha più un grande significato: i sentimenti che provi non fanno di te una persona “buona” o “cattiva”. Hai il diritto di soffrire e, invece di tentare di cambiare il modo in cui ti senti, sii benevolo con te stesso, accetta i tuoi vissuti emotivi e cerca di essere “curioso” nell’esplorare cosa stanno cercando di dirti. A qualsiasi età puoi imparare a prenderti cura di te e delle tue emozioni.
Giulia D’Ascanio, psicologa clinica