L’Aquila. Un “pensiero d’amore” per la sua terra, ricambiato da un pubblico internazionale che ha affollato il Teatro dell’Opera di Tirana, in ogni ordine di posto, è stato il gala offerto dal soprano Ermonela Jaho, insieme al tenore Charles Castronovo, “pensiero d’amore” formato di proprietà contraddittorie, eccesso di sentire, simbolo, in alto grado di assenza e di presenza, pienezza e vuotezza, gioia e malinconia, vita e morte, quale è quello della musica tutta. Abbiamo inteso evocare nel titolo il penultimo verso dell’aria “Un soffio è la mia voce”, che interiormente rappresenta maggiormente la cantante, “Io son l’umile ancella”, poiché nell’analizzare la visione musicale della Jaho ci siamo voluti affidare al greco physis, un termine infinito che passa dal soffio, alla natura, per colei che è alla eterna ricerca del nuovo linguaggio, di un’articolazione di un ritmo personale, di una espressione e una pronuncia che la rende stilisticamente inconfondibile, regina di quel Novecento eurocolto, in cui tanto valore è attribuito al colore, al timbro. Un’idea quella della Jaho che, in un programma dedicato quasi per intero alla musica francese e a certo verismo italiano, che guardava ed era a sua volta guardato dai transalpini, è stata letta e penetrata dal M° Jacopo Sipari di Pescasseroli, alla testa dell’orchestra dell’Opera. Se la serata è principiata un po’ a sorpresa, per i toni scelti in seguito, con l’ouverture della Carmen di Georges Bizet, che naturalmente ha nell’immediato infiammato il pubblico, il direttore ha poi consegnato all’ovazione del pubblico Ermonela Jaho, che si è presentata fasciata da uno sfarzoso abito rosa, per dar voce a Thais con“Je suis seule….Dis moi que je suis belle …” che apre il secondo atto dell’opera di Jules Massenet. Poi, per noi è stata la Sapho di “Ces gens que je connais… Pendant un an je fus ta femme”, e ancora Magda de’ La Rondine, Adriana, con la sua aria “Io son l’umile ancella”, Violetta, Butterfly.
La Jaho ha tecnica dell’emissione calda e omogenea lungo tutta la gamma, dell’eguaglianza timbrica insieme con la deliberata varietà dei colori, che la rendono decisa e sfrontata nella lusinga erotica, nell’intensità di espressione, nello sguardo, in quella disperazione di chi è preda del demone Amore, che prende in essa le forme del symbolon, ovvero del difetto che attinge un eccesso, del basso che si congiunge in eros iniziatico alto, di colei che è continuamente disfatta da ciò che è o appare d’essere, in un continuo respingersi e disperarsi, imprendibile nella sua forza di syn-ballein, che aspira-insieme e si proietta turbinosa come un gorgo marino, plastica e plasmante. Difficile da dirigere, da seguire, la Jaho nelle sue interpretazioni che vengono giocate sull’emozione del personaggio e del momento, nota per nota. Ci è riuscito il direttore, calamitando il proprio sguardo in quello del soprano. Ci viene qui incontro Paul Valèry, la sua ostinata armonia e le esperienze varie e contraddittorie in cui la rinuncia è la condizione di quella inventio infinita, capace di offrire sensazioni preziose, in cui misteriosamente “une voluptè” si unifica con “une énergie”. E’ giusto qui il luogo dell’arte pura, che si dà come forma estrema e nella quale l’emozione estetica diventa mistica e raggiunge livelli e modi che solo la musica riesce a realizzare. Se si era andati a teatro per riascoltare Ermonela Jaho, abbiamo rincontrato al suo fianco uno splendido tenore, Charles Castronovo, una delle voci più richieste, con il suo invidiabile appeal timbrico, un considerevole bagaglio tecnico e acuti affilati e squillanti, che abbiamo potuto apprezzare in ogni sua performance, sia nelle oasi liriche, nel canto a fior di labbra, nei momenti di grande suggestione, nello scavo del rapporto con la parola francese, quale Rodrigo di Le Cid in “O Souverain, o juge, o père” o nei panni di Werther per il “Pourquoi me réveiller”,in cui Castronovo si è ben calato in quella abstraktion massenetiana dell’arte, strettamente apparentata con quella della nostalgia, di cantare l’ “esclusione” dal mondo, l’impossibilità di stabilire un’empatia fra l’individuo e la vita circostante. Un programma veramente lungo e impegnativo questo proposto a Tirana, in cui l’orchestra si è cimentata nel Bacchanale dal Samson et Dalila di Camille Saint-Saens, con il primo oboe che ha scelto il suono ciaramellante, per l’intera sezione (seconda parte e corno inglese), materiale sonoro da scatenamento fisico-erotico di straordinaria intensità, cui ha messo ordine il direttore, pensando bene alla danza, e ancora l’intermezzo di Pagliacci pieno di sfumature, con una bacchetta duttile nel rilevare screziature espressive, l’intermezzo di Cavalleria rusticana, con l’attraversamento dei singoli momenti della partitura che richiedono anche sensibilità drammaturgica, per quel che avverrà dopo e l’intermezzo di Suora Angelica, nelle corde e nel cuore del maestro, che trasforma in preghiera, in cui pur focalizzandone la lettura sui singoli dettagli emozionali dei dettagli e della struttura del fraseggio, riesce a tenere comunque ben teso il filo dello svolgimento musicale. Finale giocato tra una teatrale interpretazione della Jaho di “Addio del passato”, Violetta per sempre, un’aria che è divenuta sul palcoscenico il film dell’intera opera, di un’efficacia espressiva, delicatezza e cognizione di causa di finissima fattura, sino alle lacrime, “E lucevan le stelle”, pari addio alla vita di Mario Cavaradossi, da parte del tenore, in cui il clarinetto di Elton Katroshi ha introdotto tutti in quell’atmosfera di grande impatto emotivo, per chiudere con il duetto da Butterfly “Viene la sera” tra sogno di felicità incantevole e ingannevole, cinico, di elementare inconsapevolezza, tradotto in orchestra con scorrevolezza, precisione e leggerezza. La sacralità del momento è tutta della Jaho, la quale ha baciato il palcoscenico, come se non ci fosse un domani, prima di essere sommersa dai fiori. I più belli, certamente quelli inattesi del maestro pianista che la scoprì e le predisse una brillante carriera Robert Radoja. Tra le lacrime le numerose chiamate al proscenio e due bis. Charles Castronovo ha scelto “Core ‘ngrato” un classico napoletano nell’arrangiamento originale del Maestro Luca Gaeta, il quale ha guardato al nostro luminoso passato strumentale, in particolare dei legni, ricercando non poche iridescenze timbriche tra le righe, mentre la Ermonela si è congedata dall’ovazione del suo pubblico con “Un bel dì vedremo”, ancora Butterfly, forse il grado più alto della serata, per lei e per il pubblico, assieme a La Traviata, di coinvolgimento interiore. Ancora standing ovation e festa a sorpresa nella sala blu del teatro per il compleanno della divina, organizzata dal sovrintendente “sorella spirituale” Abigeila Voshtina. Ermonela, dopo l’abbraccio del pubblico, ha smentito quanto rivelato nella nostra precedente intervista, ovvero di non avere più sogni e di rivolgere tutta se stessa alle nuove promesse della lirica e ha promesso di debuttare con Daniel Oren, suo direttore d’elezione, un nuovo ruolo a sorpresa, magari, chissà proprio al Teatro Verdi di Salerno, dove è stata insuperata Adriana Lecouvreur, ponendosi nuovamente alla ricerca del “tempo pieno”, il tempo dell’arte, ove l’istante non è più.