Celano. Il denaro contante per 200 mila euro e le monete antiche per un valore di un milione di euro, trovati il 6 novembre dalla Guardia di Finanza nella casa di famiglia di Fabrizio Tirabassi a Celano, “erano di mio padre”, ha risposto l’imputato nel processo sulla gestione dei fondi della segreteria di Stato, di cui si è concluso oggi l’interrogatorio in aula.
Nella 25esima udienza del processo nella Sala polifunzionale dei Musei vaticani, come riporta l’Ansa, ripreso oggi dopo quasi tre mesi di pausa, l’ex funzionario dell’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato – accusato di peculato, abuso d’ufficio, corruzione, truffa ed estorsione – ha risposto alle domande del promotore di giustizia Alessandro Diddi, neo-nominato dal Papa al posto del dimissionario Gian Piero Milano e per questo congratulato dal presidente Giuseppe Pignatone e dal collegio difensivo. In particolare, nell’odierna conclusione del suo interrogatorio, ci si è riferiti soprattutto alla rete di rapporti di Tirabassi con consulenti o aspiranti tali della Santa Sede.
E anche ai redditi dell’ex funzionario, tra cui spiccavano un milione 360 mila euro in un conto in Svizzera, frutto della “procura amministrativa” riguardante due fondi d’investimento concessagli tra il 2004 e il 2009 dal dirigente dell’Ufficio mons. Piovan e poi revocata dal subentrato mons. Perlasca. Arrivati poi al sequestro delle monete e del denaro contante nella casa di Celano, gli avvocati difensori Cataldo Intrieri e Massimo Bassi hanno fatto opposizione, perché “il sequestro è stato annullato in Italia dal Tribunale del Riesame di Roma, che ha disposto la restituzione, e a distanza di un anno quei beni non sono stati ancora restituiti. In sostanza le autorità vaticane non adempiono a un atto disposto dalla magistratura italiana. E c’è un problema di nullità che si trasferisce su quei beni, che per noi, a livello processuale, non esistono, sono inutilizzabili, quindi non possono essere oggetto di domande”.
Inoltre, come racconta l’Ansa, “le istanze in Italia sono state presentate da Onofrio Tirabassi, nel frattempo deceduto, padre dell’imputato, che rivendicava la proprietà di quei bene, frutto delle sue attività”.
Il presidente Pignatone, dopo una breve camera di consiglio, ha però respinto l’opposizione difensiva sostenendo che quel sequestro resta comunque “un fatto storico” avvenuto. Fabrizio Tirabassi, sottoponendosi quindi alle domande, ha confermato
che quei beni “non erano miei. Erano nella casa paterna ed erano di proprietà di mio padre, come da lui stesso rivendicato. Lui, he aveva avuto una lunga attività lavorativa, dapprima in Vaticano poi come titolare di una società, era restio a depositare il denaro in banca essendo stato vittima di di alcuni furti e anche rapine a mano armata. Riteneva più prudente conservarli in casa. Da pensionato il collezionismo numismatico, frutto dei suoi risparmi e anche di attività di scambio, era diventato la sua passione, era la sua vita, e svolgeva anche opera di consulente in quel campo. Era quello in cui credeva”.
Domani, con l’avvocato Nicola Squillace, si concluderanno gli interrogatori degli imputati e inizierà l’ascolto dei testimoni dell’accusa, che continuerà venerdì con il revisore generale dei conti vaticani Alessandro Cassinis Righini e il direttore generale dello Ior Gianfranco Mammì.
Proprio l’Ufficio del revisore generale e lo Ior sono gli autori della denunce che nell’estate 2019 hanno dato il via all’inchiesta vaticana sull’acquisto del Palazzo di Sloane Avenue a Londra.
Nella lista dei testimoni dell’accusa non figura per ora colui che è considerato il testimone-chiave, mons. Alberto Perlasca, peraltro costituitosi anche come parte civile.