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Madama Butterfly all’OperaBalet di Maribor con il Maestro Jacopo Sipari

Alessandra Ciciotti di Alessandra Ciciotti
21 Marzo 2024
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Pescasseroli. Torna la Madama Butterfly all’OperaBalet di Maribor, che impreziosirà le celebrazioni per il centenario pucciniano, con due repliche previste per venerdì 22 marzo e domenica 24 alle 19. Volutamente esotica, come sarà, poi, Turandot, come ha rivelato il direttore artistico Simon Krečič, tra l’altro, valido direttore musicale – la tragedia, musicata da Giacomo Puccini, consumata ai danni di un’ingenua giapponesina è perfida, sadica, una violenza carnale con la tecnica della civiltà, dove la barbarie non è riconoscibile facilmente, perché rovesciata nei suoi termini.

 

 

“La Madama Butterfly viene a porsi al centro di un centenario pucciniano – ha continuato il Maestro Krečič –  che abbiamo avviato con la Manon Lescaut, seguita da La Rondine. Ora  si andrà in scena con forse la partitura più delicata, poi Tosca e il 29 novembre, proprio nel giorno della morte del Maestro, produrremo la sua ultima opera, incompiuta Turandot”. Barbaro è l’uomo occidentale; la vera civiltà sta dalla parte della fragile donna, che sembra, viceversa l’espressione di una cultura tribale, superstiziosa ed estetizzante, dalla quale, peraltro, ella sente di dover fuggire per rifugiarsi tra le braccia del suo salvatore, venuto da un mondo di progresso e realismo. Questo significato, che si regge sull’inganno, mette in rapporto strettissimo la musica occidentale del tardo Ottocento (brani d’uso e dotti, dall’inno degli Stati Uniti al Tristano di Wagner, al ben noto Massenet, a reminiscenze di Bohème e Tosca), con richiami alla tradizione giapponese, gremita di scale pentatoniche. E’ quanto dovrà affrontare l’Orchestra dell’OperaBalet di Maribor, unitamente al coro che il direttore artistico dell’istituzione slovena, Simon Krecic, ha inteso affidare alla bacchetta di Jacopo Sipari di Pescasseroli, unitamente al regista Pier Francesco Maestrini. Subito, all’inizio, il fugato nervoso d’introduzione, finto Settecento, defluisce in giapponeserie d’intrattenimento dove cominciamo a ricevere i colori d’uno strumento tipico, tintinnante e aereo. Inoltre, l’uso di modalità, che derivano dal Boris di Mussorgskij, o in genere, dalle scoperte dei Cinque, parrebbe stabilire un ponte fra questi due emisferi della musica. Nel complesso, la tensione fra le due mentalità tende a conciliarsi, soprattutto nella protagonista, Cio-cio-San, che avrà la voce della splendida Rebeka Lokar (una musa in ascesa), che brucerà le sue ali delicate nel tentativo assurdo di mediare un conflitto.

 

 

Non è affatto un argomento nuovo (ricordiamo la “Lakmè” di Delibes), ma Puccini lo trascina fino allo spasimo, tanto da farlo diventare una rappresentazione simbolica, eppure carica di connotati fisici: le conseguenze di una verginità perduta e umiliata. Butterfly appare, infatti, al primo atto come portata in scena da un velo di suoni, una cosa intatta, appena nata e già desiderabile. Il colloquio indifferente tra i due americani l’ha ormai sacrificata, ma in special modo, il cinismo di Pinkerton (Klodian Kacani), Sharpless (Jaki Jurgec) non arriva, come sappiamo, a tanto e cerca, anzi, di salvare l’onore degli avventurieri yankee. La folla dei parenti e dei conoscenti di Butterfly, invitati alla cerimonia nuziale, anima una scena molto movimentata, che Puccini governa con mano sicura, un saggio straordinario di rappresentazione collettiva, d’una gentile, esotica pedanteria. Il duetto fra i due sposi, invece, è quanto di più europeo e sdolcinato, seppure con schemi costruitissimi, molto ben tessuti, molto ben orchestrati, con varie ed auree idee, fruscii e profumi, comunque troppo lungo, per non dare l’impressione, assolutamente verificabile, dell’insincerità di Pinkerton. Il secondo atto è tutto di Cio-Cio-San, affiancata dalla cameriera Suzuki (Irena Pektova): un’interminabile via Crucis, dai mutati e più sordi colori d’orchestra, percorsa in un’attesa spasmodica a denti stretti, il viso alzato al sorriso, tra ansie, languori dubbiosi e soffocanti, esaltazioni superbe, come il troppo conosciuto “Un bel dì vedremo”, ingenuo bamboleggiare e incrollabile speranza, fino all’annullamento. Lo precede la nenia che protegge il sonno del bambino e la veglia della madre, quel coro a bocca chiusa, che vale come un delicato femmineo sudario.

 

Con la stessa tenerezza, con la stessa fiducia Butterfly è diventata madre; quando si accorge che questa fiducia viene calpestata e tradita, il sentimento materno offeso, lo strappo del parto, si piantano nella coscienza dello spettatore con la velocità di un proiettile. La commozione si riversa in un gesto solo, come in un’inquadratura cinematografica, come al tempo della morte di Manon. E’ un momento viscerale, quella che viene definita la brevità del respiro pucciniano, qui diventa un ruggito che, per quanto dignità e pudore ci siano nell’esecuzione, non può nascondersi dietro il paravento, come fa Butterfly quando si uccide. Stringe il figlio tra le braccia sette volte, possiamo dire, come i sette “tu” che le fuggono dal cuore. Dopo una prima parte tortuosa, aspra, parlata, che dimostra il legame razziale e rituale, la donna si scaglia in un arco melodico più occidentale, quasi tendendo le mani a proteggere il suo bambino che va verso il tramonto del sole. Quando, sulle sillabe finali della parola “abbandono”, la melodia cade sulla tonica di si minore e di qui prende il suo tremendo volo verso la dominante, con accompagnamenti pesanti di gong, su uno schema di arpeggi molto semplice, arcaico e, insieme, poderoso, la melodia portata e stretta entro i limiti della tonalità, crea un torrente di energia, che si placa su quel terribile “gioca, gioca”, seguito dalla squallida trombetta. Un saluto per toni interi accoglie dall’orchestra (trombe e tromboni) l’entrata del padre: è ricavato da “Un bel dì vedremo”, il tema della collina; Pinkerton sale adesso, troppo tardi. Segue subito l’ultimo tema, ancora per toni interi, trionfale, doloroso, addirittura sanguinante, che investe la suicida d’una spietata luce di martirio. L’accordo finale è una smorfia, uno schiaffo all’indirizzo di una civiltà vile. A completare il cast Goro, Dusan Topolovec, Bonzo, Alfonz Kodric, il Principe Jamadori, ruolo diviso tra Bogdan Stopar per la prima e Tomaz Planinc e ancora Yakusidè  che avrà la voce di Jernej Luketic, Kate Pinkerton, Klavidija Kuzkin, il commissario imperiale, Sebastijan Celofiga, Ufficiale del registro Mihael Roskar, la zia Dada Kladenik e la cugina Katarina Barbara Krnjak.

“ Madama Butterfly è la mia opera preferita in assoluto – ha dichiarato il Maestro Jacopo Sipari – ma non lo è sempre stato. Sono stato inondato dalla sua grandezza solo quando la studiavo e si avvicinava il mio debutto sul podio per questo titolo. Posso dire con certezza che non esiste opera più bella, dove il tempo si dilata fino all’immobilità, con il coro a bocca chiusa. Una grande emozione che mi riporta alle origini del mio amore per Puccini, forse un po’ come il bimbo che si addormenta e conduce lo spettatore a regredire sino all’infanzia, sul risonare delle corde della viola d’amore. Per questo sono felice di dirigere quest’opera qui con questa splendida orchestra e un cast dove Cio-Cio-San sarà Rebeka Lokar, con la quale incisi la mia prima Turandot per i novant’anni dalla prima esecuzione per la Paramax. Al suo fianco ci sarà il giovane tenore albanese Klodian Kaçani, già celebre e pupillo di Riccardo Muti. Saremo, quindi tutti presi da questo coacervo di emozioni che vanno ben oltre il palcoscenico e che spero di restituire, puro, all’uditorio”.

Tags: Jacopo Sipari
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