Capistrello. Continua a suscitare interesse il caffè letterario itinerante, che si è svolto sabato scorso in un piovoso e freddo pomeriggio che pareva volesse sottolineare le cupe vicende narrate nelle pagine di “Se questo è un uomo”. Alla vigilia della festa di liberazione del 25 aprile, l’approfondimento di quest’opera ci ha offerto un resoconto freddo e lucido dei lunghi mesi trascorsi dall’autore a Monowitz, un campo di lavoro situato nel complesso di Auschwitz. La testimonianza di Primo Levi lascia attoniti con quel suo stile narrativo, pervicacemente distaccato rispetto agli eventi vissuti e narrati da conferire ulteriore forza alle parole che penetrano nella viva carne del lettore. Diversi gli interventi che hanno trasmesso una sincera partecipazione emotiva a testimonianza di come certe letture possano scuotere le coscienze. Libri come questo sono un monito per chi è nato dopo la guerra a far proprie le testimonianze di chi è sopravvissuto alla barbarie, perché quanto accaduto non succeda mai più. Una domanda che ricorreva frequentemente negli innumerevoli incontri avuti da Levi con i gli studenti, nella sua infaticabile opera di testimonianza attraverso la scuola, nasceva proprio dalla curiosità di sapere come mai, nella sua narrazione, non emergesse l’odio verso i suoi aguzzini. A questa domanda lui rispondeva di ritenere l’odio un sentimento rozzo e animalesco, lontano dalla sua indole. Inoltre i suoi persecutori, i signori della guerra, i fautori della soluzione finale avevano i volti di un potere delirante, indistinto e pervasivo che aveva permeato in quegli anni tutta la Germania e, quindi, semmai avesse voluto odiare qualcuno, avrebbe forse potuto odiare l’intero popolo tedesco? Ecco che allora questa sconvolgente testimonianza diventa l’opprimente cronaca di una folle normalità, dove vittime e carnefici si dissolvono tra le nebbie dell’inverno polacco in un tempo immobile e privo di vita. Il dibattito è poi scivolato inevitabilmente sull’eccidio di Capistrello, con un pensiero rivolto alle 33 persone trucidate dai tedeschi il 4 giugno del 1944 proprio nel giorno in cui Roma veniva liberata dagli alleati. Di quelle 33 vittime, 8 non vennero mai identificate. Nel 1960 il sindaco Guidoni, proprio nel posto dove avvenne il massacro, volle erigere un sacrario alla memoria dei 33 martiri che da allora, ogni anno, è luogo di ricordo e commemorazione.