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L’eccidio di Capistrello vive nelle eterne parole di Antonio Rosini: in 33 morirono per la rappresaglia nazista

Federico Falcone di Federico Falcone
3 Giugno 2019
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Capistrello. In quello scorcio di fine maggio, nella zona del parco, un’area ristretta di circa un chilometro quadrato, venne trovato ucciso sotto una pianta di ciliegio un uomo di quarantacinque anni, Carlo Zaurrini. I primi ad alzarsi dettero l’allarme. Una pallottola gli era entrata in un occhio, un’altra in un orecchio, il petto era crivellato; aveva una camicia per metà tirata fuori, i pantaloni sbottonati e insanguinati.

La notizia fece grande impressione e creò ancora maggiore angoscia e paura. Un folto gruppo di contadini e di giovani decise di andare in montagna con le proprie bestie e con qualche arma, insieme ad alcuni prigionieri indiani. Erano gli ultimi giorni della guerra, e questi poveri contadini intendevano mettere in salvo il proprio bestiame ed evitare che i tedeschi e i fascisti potessero perpetrare rappresaglie sulla popolazione per la loro resistenza contro la soldataglia.

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Molti partirono all’improvviso, di notte, dopo aver dato un frettoloso abbraccio ai familiari; tutti pensavano di poter tornare presto, liberi. Fu un giorno infausto, il giorno della SS. Trinità, il 4 giugno del 1944. La mattina, verso le sette, i contadini sulle montagne di Luco erano intenti a mungere le pecore; altri accudivano ad altre faccende, qualcuno di guardia era distratto. All’improvviso una voce straniera disse qualcosa, tutti si voltarono e videro facce di stranieri e di traditori, tutti con l’arma puntata. Nessuno si poté muovere. Gli armati ordinarono qualcosa, tutto a bassa voce, evidentemente avevano paura degli altri contadini sparsi per la boscaglia.

La colonna si incamminò. Un tedesco ordinò a dei fascisti di prendere le bestie; questi, per la fretta e per la paura ne presero solo una parte e seguirono la colonna. I contadini e i prigionieri incolonnati, con le mani alzate, camminavano, sperando ognuno di trovare il posto più adatto per fuggire. Ma più avanti c’erano altri tedeschi e fascisti che rafforzarono la colonna di guardia. La ribellione e la fuga risultarono impossibili. I trentatré contadini e i prigionieri furono portati nella rimessa della stazione ferroviaria di Capistrello. Tre tedeschi ebbero un breve colloquio ed uno di loro indicò una fossa di bomba antistante lo stabile, l’altro annuì. La terribile decisione era presa.

I contadini vennero fatti uscire uno o due alla volta. Venivano portati sull’orlo della fossa e due gendarmi, a breve distanza, sparavano alla nuca. Cadde il primo, cadde il secondo, il terzo contadino tentò la fuga, scappò, a dieci metri lo raggiunse una scarica e rimase lì: il suo nome era Giacomo Cerasani di quarantasette anni. Venne il quarto, poi il quinto, il sesto; si era fatto già un mucchio. Dallo stabile si sentì una voce di fanciullo strillare: era Giuseppe Forsinetti, di tredici anni. Questo gridare dava fastidio ai camerati.

Ordinarono di prenderlo, per farlo fuori subito. Nello stabile ci fu resistenza, ma invano. Lo zio del ragazzo, Antonio Forsinetti, non volle abbandonarlo e gli si aggrappò e, così, sull’orlo della fossa, si videro due sagome disuguali. Fu la volta di un contadino con baffi, robusto, con fronte alta. Sono i segni di riconoscimento di Cipriani Angelo, caporal maggiore dell’esercito, di anni quarantaquattro. Uno dei pochi contadini anziani piuttosto istruito. Quest’uomo gridò con tutte le sue forze: «Viva l’Italia! A morte i tedeschi!»

Uscirono due uomini. Erano i fratelli Rosini, Alfonso di quarantatré anni e Loreto di quaranta. Caddero nella fossa tenendosi per mano. Così li trovarono dopo otto giorni dalla fucilazione. Seguitarono ad alternarsi sull’orlo della fossa della morte gli altri, in prevalenza giovani di sedici, diciassette, diciotto anni. Passarono i giorni, furono pianti. Finché il giorno dell’arrivo degli alleati si scoprì la macabra sciagurata realtà.

Nota:
Il racconto fu pubblicato da Antonio Rosini sull’Unità il 6 giugno 1954, a dieci anni dall’eccidio. Antonio Rosini (nato ad Avezzano il 24 maggio 1930, e morto il 26 dicembre 2017) è divenuto poi una delle figure più prestigiose del partito comunista, del partito democratico e della sinistra abruzzese.

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