Avezzano. Quest’anno, in occasione dell’anniversario del terremoto del 1915, vi proponiamo una storia molto toccante intitolata “La donna fantasma di Avezzano”, pubblicata da Michele Maria Musto sul periodico “L’apostolato della preghiera”. L’opuscolo venne stampato da una benefattrice, che come accade anche nel racconto scelse di rimanere anonima, e i 10 centesimi di ogni copia venduta vennero donati agli orfanelli del terremoto. Il racconto, distribuito già a maggio di quel maledetto 1915, illustra una vicenda molto toccante ambientata nell’Avezzano post terremoto, in cui è difficile capire dove finisce la realtà e dove invece inizi la fantasia. Ringrazio Valerio Cristini per la segnalazione e Paola Munzi, con cui sto già lavorando da tempo a una trasposizione teatrale di questo racconto.
La storia nasce nelle settimane del dopo terremoto, mentre l’Italia intera cercava di dare una mano alla popolazione della Marsica, messa in ginocchio dalla terribile catastrofe. Tra le macerie di una città demolita ogni notte si udivano urli frenetici e strazianti, intercalati da parole tronche e singulti, che destavano contemporaneamente sia orrore che compassione. Qualche contadino aveva raccontato di aver visto il fantasma di una donna scarmigliata, avvolta in una bianca coperta, correre su e giù per la città. Questa donna, però, teneva un comportamento strano: si chinava sui mucchi di macerie, ne rimuoveva le pietre e chiamava a voce alta qualcuno, con cui sembrava conversare. Poi all’improvviso, gridando come una disperata, riprendeva la sua corsa tra le macerie.
Gli avezzanesi sopravvissuti al sisma, preoccupati dalle numerose testimonianze, si sforzarono di dare una spiegazione a quei misteriosi eventi. Qualcuno ipotizzò che fosse il fantasma di chissà quale anima dannata, altri ipotizzavano che fosse uno spirito del male, uscito dalle profondità del terreno in seguito alla potente scossa tellurica e poi rimasto vagante per le contrade avezzanesi. Ad ogni modo alcuni uomini si fecero coraggio e decisero che era arrivato il momento di accertare quale fosse la verità. Scelsero diversi punti di avvistamento, sia tra i resti della città che nell’immediata campagna, e vi si nascosero, ma non appena il fantasma gli comparve dinanzi si spaventarono così tanto, che scapparono subito a rintanarsi nelle loro baracche di legno. Altri, che impauriti avevano cercato di nascondersi dietro i cumuli di macerie, furono presi a sassate dal fantasma della donna non appena quella li scoprì. Quegli uomini però non si arresero e organizzarono una nuova spedizione, questa volta armati di randelli. Ma ogni volta che quelli cercavano di braccare il fantasma quello spariva, in un attimo, tra le insenature di un monte o negli anfratti di qualche burrone. Alla fine però le persecuzioni, sempre più numerose, placarono le apparizioni e tra gli avezzanesi tornò la calma.
Una donna, incuriosita da questi strani eventi, si cercò un buon nascondiglio dove poter spiare il fantasma e, alla prima apparizione, capì immediatamente cos’era successo: quello era il fantasma di Lisa la lattaia. La giovane donna, che aveva appena trentacinque anni, qualche anno prima era rimasta vedova di suo marito Girolamo, detto Momo, morto di ictus. L’uomo era un gran lavoratore e con i suoi risparmi aveva costruito una casetta con adiacente un bell’orto, dove aveva messo anche qualche vacca e parecchie capre, oltre ad un buon numero di galline. Mentre lui si occupava di coltivare l’orto e di venderne le derrate, sua moglie Lisa riforniva di latte e di uova gli alimentari e diverse famiglie di Avezzano. Grazie a questa piccola attività i due vivevano una vita tutto sommato agiata, tanto da potersi permettere il lusso di far educare la loro unica bambina, Rosetta, in un collegio di suore poco lontano da Avezzano. Il giorno che il povero Momo morì Lisa, da brava cristiana, accettò il divino volere e con coraggio si caricò sulle spalle tutto il lavoro della piccola azienda di famiglia. Le bastò poco, però, per rendersi conto che tutto quel lavoro era troppo per una sola persona, perciò decise che era arrivato il momento di ritirare dal collegio la figlia, che a dodici anni era già molto più che una piccola donna. In poco tempo Rosetta divenne il braccio destro della madre, che riusciva ad aiutare sia nelle faccende domestiche che in quelle della piccola attività, dove si occupava prevalentemente di tenere i conti in ordine. Madre e figlia erano anche molto religiose. Ogni giorno, di buon mattino, si recavano in chiesa, dove poi tornavano anche la sera e infine concludevano le loro preghiere in casa, con la recita del santo rosario. Le due, mosse dalla carità cristiana, erano così generose che nessun povero che bussava al loro uscio se ne andava con le mani vuote. La loro azienda, inoltre, riforniva gratuitamente di latte e di uova ogni povero infermo che ne facesse richiesta. Questo le rendeva amate e apprezzate in città, tanto che la gente ormai le aveva soprannominate Donna Lisa la pietosa e Rosetta la santarella.
Il 13 gennaio Lisa e Rosetta erano appena tornate dalla chiesa e, bevuta una ciotola di latte, si preparavano a riassettar la casa, ma in quel momento una terribile e lunghissima scossa di terremoto fece tremare la loro abitazione. Lisa, con fare protettivo, prese la mano della figlia e la guidò verso l’uscita, ma non fecero in tempo ed entrambe rimasero seppellite sotto il tetto, che gli era crollato addosso insieme alle mura e ai calcinacci. Fortunatamente due travi si incrociarono sulle loro teste e non morirono sul colpo, ma le due vennero sommerse da una terribile pioggia di pietre e tegole, che si trascinò dietro anche una soffocante nuvola di polvere. Tentarono di uscire da quella trappola, ma i loro corpi erano seppelliti e schiacciati da quelle pesanti travi, che se prima le avevano salvate, ora non concedevano loro alcun tipo di movimento. Cercarono di farsi sentire ma poi, quando videro che ormai era troppo tardi e nessuno accorreva in loro aiuto, rivolsero le loro anime a Dio e si rassegnarono a morire lì sotto, di una morte lenta e dolorosissima.
Dopo tre giorni alcuni soldati, che passavano vicino a quelle rovine, furono attirati da un gemito moribondo. Spostarono le macerie e grande fu la loro sorpresa, quando scoprirono che quel lamento era solo il verso di un gatto, macilento e sparuto, rimasto anch’esso sepolto sotto le macerie. Un soldato però notò anche il corpo di una donna e, avvicinatosi, si accorse che respirava ancora: Lisa non era morta, ma solo svenuta. Ma non appena quella aprì gli occhi, chiese della sua Rosetta e i soldati l’aiutarono a scavare nel punto indicato dalla donna. Non ci misero molto a trovare il corpo della bambina, purtroppo morta. Lisa raccolse il piccolo cadavere e se lo mise in grembo, girandolo, scuotendolo in ogni modo e persino soffiandogli sul volto per cercare di riportarla in vita, ma i suoi sforzi erano inutili e vani. Lo strazio della donna fu enorme e nessuno riusciva a strappargli dalle braccia il piccolo cadavere. I soldati, per procedere alla sepoltura del corpicino, dovettero sedare la madre con un narcotico. Quando Lisa si ridestò e non vide la figlia, fu come se gliel’avessero uccisa una seconda volta. La donna divenne taciturna e selvaggia, non si faceva avvicinare da nessuno e, con il passare dei giorni, si chiuse in sé stessa e non disse una parola, né versò più una lacrima. In città tutti ormai dicevano che Lisa era ammattita, ma per non far morire di stenti e di fame quella donna, che in passato aveva aiutato tanta gente, in molti si prodigarono per farle costruire una piccola casetta e un giaciglio fatto di pagliericcio e coperte. Ogni giorno, inoltre, gli facevano recapitare davanti l’uscio una piccola provvigione di commestibili e bevande, che lei divorava di notte in fretta e furia, per poi tornare nel suo covo. Da lì a poco iniziò il suo girovagare notturno tra le macerie, in cerca della figlia, tanto che molti avevano l’avevano scambiata per “la donna fantasma di Avezzano”.
Lisa era talmente distrutta dal dolore, che gli avezzanesi pian piano iniziarono a sperare che la divina provvidenza la ricongiungesse presto alla figlia. Ma evidentemente la provvidenza aveva altri piani, che decise di attuare grazie ad un’altra donna, che per rispetto alla sua modestia rimarrà anonima. La donna, che durante il terremoto aveva invocato la protezione di Gesù per lei e per la sua famiglia, una volta salva si impegnò al sollievo dei poveri e degli infermi, attraverso opere di carità e di beneficenze. Quando quella però venne a conoscenza della storia di Lisa la lattaia rimase molto scossa, in particolar modo perché la figlia aveva la stessa età di Rosetta e frequentava lo stesso istituto religioso. Fu allora che alla donna venne in mente un’idea, che avrebbe quantomeno alleviato le sofferenze della povera Lisa. Chiese a sua figlia Ida se conoscesse Rosetta, la figlia di Momo e di Lisa la lattaia. Quella non solo le rispose che la conosceva, ma che in collegio erano state persino in classe insieme, ed era rimasta molto colpita dalla sua morte perché le voleva bene come una sorella. La madre le raccontò che dopo la morte di Rosetta la povera Lisa era impazzita e che quindi bisognava aiutarla ad ogni costo. In breve spiegò il suo piano a Ida, che aveva il posto d’onore nel pietoso dramma che dovevano mettere in scena. La figlia doveva fingersi Rosetta rediviva, imitandone la voce, il modo di parlare, l’atteggiamento della persona e qualsiasi altro particolare che rendesse più completa la messinscena. Le due studiarono a tavolino tutti i discorsi, le azioni da compiere in sua presenza e i ricordi che dovevano richiamare alla mente di lei per rendere tutto più veritiero. Ida, assai svelta ed intelligente, si disse certa che con l’aiuto di Dio sarebbe riuscita nella difficile e misericordiosa impresa. All’indomani madre e figlia si prepararono: Ida venne vestita con una veste di lanetta bigia, un grembiulino bianco allacciato con un nastro cilestro, mentre ai piedi calzò delle scarpe colorate. Al collo portava la medaglia di Figlia di Maria, la stessa che portavano in collegio. Vedendosi allo specchio Ida rimase colpita da quanto somigliasse all’amica, tanto che batté le mani ed esclamò «Io son Rosetta, io son Rosetta!». La madre, prima di farla uscire di casa ed indirizzarla verso casa di Lisa, gli spruzzò un po’ di profumo e poi le infilò sotto il braccio un paniere pieno di pasticcetti, frutta fresca, canditi e altre ghiottonerie.
Ida si avvicinò alla casa di Lisa e bussò alla porta, ma nessuno rispose. Allora la bambina bussò più forte e, con una vocina soave, tra il pietoso e il giulivo, gridò «Mamma, aprimi, son la tua Rosetta!».
Dall’interno si udì un grido, un sobbalzo, quindi un rumore di sbarre rimosse. La porta si aprì e comparve la povera Lisa, con i capelli scarmigliati, gli occhi strabuzzati e il volto talmente aggrinzito che sembrava uno spettro che esce dal sepolcro.
Ida dapprincipio ebbe paura, ma poi sorrise e si fece coraggio «Mamma, non mi riconosci?»
Lisa si fregava gli occhi, la guardava sbalordita dalla testa ai piedi, la palpava con le mani, ne odorava il profumo e, come trasognata, le disse «Sei proprio tu? Dunque non sei morta?»
Ida ribatté «No madre, il mio corpo è morto e sepolto, ma la mia anima è con Dio, in paradiso. Se oggi sono qui a trovarvi è solo per divina concessione».
«Quindi sei un’anima beata, una santa del cielo!» e dicendo quello si prostrò faccia a terra, ai piedi della bambina, come in atto di adorazione.
Ida, in quell’istante, venne colta da una così forte commozione che non sapeva se piangere o ridere. Tuttavia riuscì a dominarsi e rispose «Mamma, non far così, questi onori si debbono solo a Dio. Io sono una semplice creatura beneficata da Dio. E anche tu, un giorno, sarai con me, se ti comporterai secondo la divina volontà». Quindi l’aiutò a rialzarsi e l’abbracciò amorevolmente.
La povera Lisa non riuscì più a tenere a bada il suo affetto materno: si avvinghiò alla fanciulla, baciandola in ogni parte del corpo e se la stringeva al seno, facendole ogni sorta di carezze come se volesse divorarsela a forza di baci. Ida la lasciava fare, ma poi stanca da quelle strette le disse con affetto «Basta così, mamma, sei debole e non devi stancarti. Piuttosto mangia un po’ di questo cibo che ti ho portato dal cielo». Lisa accettò, assaporando tutto con gusto «Oh, come son buoni! Hanno davvero un sapore paradisiaco! Ma voi mangiate questo buon cibo nel cielo?»
«Gli spiriti non mangiano né bevono» rispose Ida «le anime beate si inebriano dell’amore divino, che le rende felici. Oh, se sapessi di quale immensa felicità si gode in paradiso!»
«Quanto vorrei andarci anch’io! Se solo fossi morta insieme con te, sotto le pietre, forse ora staremmo insieme lassù. O forse no, perché tu eri un angioletto, mentre io non sono altro che una povera peccatrice» concluse Lisa, mentre con le mani si copriva il volto rigato dalle lacrime.
Ida, commossa, cercò di rincuorarla con dolci parole «No, mamma, tu già sei buona, ma sarai degna del paradiso se accetterai il divino volere. Affinché Dio ti conceda la grazia, però, devi fare quello che dico, perché lui parla attraverso di me».
«Sì, sì, ti ubbidirò! Dimmi che debbo fare?»
«La prima cosa che devi fare è uscire da queste rovine, che da un momento all’altro ti potrebbero crollare addosso». Lisa sembrava titubante e Ida continuò «Bada però, perché se non mi ubbidisci io ti lascerò e non mi vedrai mai più!»
«No, no, figlia mia, resta, farò quel che vorrai» rispose Lisa, stringendola forte tra le braccia «Ma dove andrò? Non ho più una casa, non ho più nulla, lo vedi anche tu!»
«Iddio provvederà, anzi ha già provveduto. Per ora ti sposterai in una casetta di legno, che la carità cristiana ti ha preparato. Poi, non appena sarà pronta la nostra vecchia casa, tornerai lì». Ida, mentre le parlava, la accompagnò fuori da quella catapecchia e la portò in una baracca di legno, che la madre aveva provveduto a far sistemare, provvista di tutto, persino di una domestica. Lisa, che ormai pendeva dalle sue labbra, la seguiva come un cagnolino.
«Questa è la tua casa provvisoria e resterai qui finché Dio non deciderà diversamente». Poi la bambina gli presentò la domestica «Questa buona donna avrà cura di te, e tu le ubbidirai, come a Dio stesso. Io, anche se non mi vedrai, sarò sempre con te. Mi farò vedere solo quando avrai bisogno di me, ma solo se sarai stata ubbidiente!». E mentre la gentile domestica accoglieva la povera Lisa, la bambina si defilò, sparì e tornò a casa di sua madre, dove insieme a lei ringraziò il Signore per come erano andate le cose. Lisa, non vedendo più la sua Rosetta, non smetteva di chiamarla ad alta voce e di piangere. La povera madre sembrava inconsolabile e stava ore alla porta, in attesa che quella tornasse. Si rivolgeva alla domestica e le faceva mille domande, a cui la donna rispondeva con pietose bugie e cercava di intrattenerla con speciosi racconti.
Passarono i giorni ma la povera Lisa, affranta da tanti dolori e scossa dalle violente emozioni provate, anziché migliorare peggiorava, finché cadde in una depressione tale che non riuscì più nemmeno a levarsi dal letto. Il medico, incaricato dalla benefattrice di occuparsi della salute della lattaia, dopo averla visitata disse che a quel male non c’era rimedio e che l’inferma, presto, sarebbe morta per esaurimento. A quel punto Ida tornò a vestire gli abiti di Rosetta e si avvicinò al capezzale di Lisa, confortandola con carezze e dolci parole «Mamma, saresti contenta di venirtene con me in paradiso?»
“Sì, figlia mia, anche subito, se vuoi” le rispose la madre, con un filo di voce.
«Ma tu sai che per vedere Dio, la tua anima deve essere pura da qualsiasi colpa. Tu sei sempre stata una brava cristiana, ma è da un po’ che non vai in chiesa. Ti andrebbe di confessarti?»
«Non ricordo più come si fa, non ricordo più neppure le preghiere!»
«Stai tranquilla, ti aiuterò io, le preghiere le diremo insieme» e detto quello la convinse ad abbandonarsi alla divina provvidenza.
Lisa, seppur nel dolore della malattia, ritrovò la sua memoria cristiana e iniziò a pregare. La benefattrice nel frattempo le mandò un prete, che dopo averle dato l’assoluzione dei peccati le somministrò anche il Santo Viatico. Una sera Lisa entrò in agonia. Mentre il sacerdote recitava le preci per i moribondi, Ida era al capezzale della povera lattaia, tergendole il sudore dalla fronte e rinfrescandole le labbra con un panno umido. Di tanto in tanto recitavano insieme una preghiera, e mentre la fanciulla diceva l’Ave Maria, l’inferma sembrava rianimarsi e muoveva leggermente le labbra, come per accompagnarla. Ma ormai la respirazione era sempre più difficile e il corpo restava immobile. Tutti, vedendo il pallore della morte che le copriva il volto, la credevano già morta. Ma all’improvviso Lisa si scosse e sollevò il capo, sbarrò gli occhi verso la parete di fronte e allargò le braccia e con voce debole ma distinta disse «Rosetta mia, vieni, portami con te in paradiso!». Poi reclinò il corpo sul guanciale e compose le labbra in un dolce sorriso. Quell’anima eletta era finalmente volata in cielo, fra le braccia della sua Rosetta, ridiscesa dal cielo per prenderla con sé. In quell’istante la campana della vicina chiesa, con i suoi dolci rintocchi, invitava i fedeli a recitare l’ultimo saluto angelico alla dolce lattaia. Lisa e Rosetta lo recitarono insieme, in paradiso.