Avezzano. “Mi chiamo Benedetto Agostino, sono per metà abruzzese e metà laziale, vivo all’Aquila da ormai sette anni per studio e per lavoro, nello specifico da un paio di anni vivo a Colle di Roio, frazione del Comune dell’Aquila, per la strada che porta a Lucoli e Campo Felice”. Inizia così la lettera di un giovane marsicano, cantante lirico, che con il suo lavoro nei primi mesi della pandemia è stato in Cina, esattamente a Wuhan, spostandosi con la tournée nella prima ondata della pandemia.
“Sono un cantante lirico, o se vogliamo un cantante, per quello che ormai il termine rappresenta in questa epoca e in questo periodo storico in particolare”, ci scrive, “da alcuni anni ho avuto la possibilità e l’onore di poter lavorare con Il Coro del Teatro Regio di Parma e con Il coro dell’Opera di Parma, con i quali sono stato spesso sia all’estero, sia nella stessa città di Parma, per concerti e produzioni. La vita del cantante in questi ultimi anni è davvero una sfida: oltre ad un rigoroso legame, con le partiture e con il proprio corpo, in quanto è il corpo stesso il proprio strumento, bisogna saltare spesso da un pullman all’altro, da un aereo all’altro, da una città all’altra e per quanto possa essere stimolante e divertente è allo stesso tempo una continua caccia al tesoro per cercare contratti a tempo determinato, un minimo di contribuzione e certe volte è difficile trovare gli stessi contratti. Certo è che se non fosse la passione a rendere il tutto accattivante, a volte il pensiero del posto fisso, sia economicamente che geograficamente, pervade l’animo, prima che la sinfonia ricominci di nuovo”.
“Il 15 dicembre del 2019 parto per la terza volta in un anno per la Cina, per una lunga tournée in diverse città dell’est cinese, con il Coro dell’Opera di Parma”, racconta, “tanta l’emozione, tanta la curiosità pur essendo stato già altre volte in Asia, ma certamente la Cina è ad oggi un paese affascinante, per i suoi grandi, enormi paradossi, per il suo travolgente cammino verso il futuro, e per quel rapporto inversamente proporzionale tra il suo antico passato e il suo velocissimo e forse troppo veloce processo di modernizzazione in ogni campo e in ogni aspetto della vita sociale. La Cina è immensamente grande, in tutto: nel numero di abitanti, nelle infrastrutture, nei teatri, negli aeroporti, nelle stazioni, nello spazio che intercorre tra le tante città. Durante i 36 giorni della tournée sono stati molti i viaggi e gli spostamenti interni: in treno, in pullman, in aereo; abbiamo conosciuto e visto le particolarità e le diversità cinesi, per quanto tutto le faccia sembrare uguali, omologate e standardizzate, ci sono differenze enormi per modi di vivere, tradizioni, commercio, etnie interne, influenze esterne e climatiche. Se solo penso a quanto possono essere diverse Tianjin, fredda città finanziaria e commerciale a sud di Pechino e Xiamen calda città tropicale posta di fronte a Taiwan, dove i tratti somatici degli abitanti si avvicinano molto a quelli malesi e indocinesi, oppure Changhsca, con i suoi 40 milioni di abitanti, città natia di Mao, con il suo gigantesco teatro e un secolare e affascinante parco buddista. Tanti i teatri, tante recite e prove, tra La Tosca, Aida, Rigoletto, Madama Butterfly, tante le città che si sono avvicendate con i loro strani nomi, ma certamente una in particolare veniva nominata spesso, perché semplicemente era l’ultima città della tournée prima di ritornare a casa: Wuhan”.
“Conosciuta per il suo mercato e l’università sarebbe stata semplicemente la città dei saluti, delle ultime Aide, ma a fine dicembre qualcuno comincia a nominare qualcosa di strano, un virus, dei contagi, dei quarantenati”, sottolinea Benedetto Agostino, “a inizio gennaio si parla di 50 persone in quarantena, poi del mercato chiuso e fin qui, malgrado le preoccupazioni di alcuni colleghi, tutto rimane abbastanza tranquillo, anche perché spesso controllavamo il sito dell’Oms che scriveva che non si poteva parlare assolutamente di una pandemia in corso e che potevamo lavorare serenamente. Dunque i giorni passano e il 15 gennaio si arriva a Wuhan. Fortunatamente eravamo già muniti di mascherine in quanto in alcune città cinesi è preferibile averla con sé, dati i livelli di inquinamento. I giorni nella città trascorrono abbastanza tranquillamente, per quanto preoccupazioni e dubbi si fanno sempre più forti”.
Il ritorno in Italia. “Finalmente il 19 di gennaio si riparte per Roma, è mattina presto, saliamo sul pullman che ci porta al famoso aeroporto: mascherine, valige e un po’ di inquietudine. Alla dogana accade qualcosa di strano, gli agenti cominciano a fermare alcuni di noi, si crea un folto gruppo tra coristi, tecnici e orchestrali. C’è un problema burocratico, mancano delle carte, delle firme per poter uscire dalla Cina: passa del tempo, circa un’ora, la tensione sale, si rischia di rimanere lì, il 19 di gennaio, a tre giorni dalla chiusura totale della città. Fortunatamente un movimento di telefonate e documenti sblocca la situazione, e dopo un’ora e mezza, con l’aereo fermo che aspettava solo noi, ci lasciano andare. Quello che mi ricordo di quel momento, è il collega Guerino, che dal cellulare mi fa vedere la prima pagina del sito di Al Jazeera, che scriveva: “La Cina ha mentito, più di 1700 contagiati nella sola città di Wuhan” . A qual punto, un respiro di sollievo e si vola per Roma. Tornato a casa, il tempo di cenare con la famiglia e si riparte per Parma, dove ci aspettano le prove per la Seconda sinfonia di Mahler da eseguire a Tonino per la Rai. I giorni di Torino non furono semplici: prima del concerto sui giornali nazionali si parla di due colleghe che erano appena tornate con noi dalla Cina, che erano state ricoverate per sintomi sospetti, poi risultate negative ai tamponi (in quel periodo non si sapeva nulla ancora sul Covid) e tutto ciò crea subito qualche disagio nell’ambiente, per me e altri due colleghi che erano stati in Cina anche loro e che erano presenti lì in quel momento. Stessa situazione anche a febbraio a Montecarlo, dove i dubbi e le voci sul Covid diventano sempre più forti”.
“La sensazione strana e difficile nel sentirsi prigionieri involontari di sé stessi”, racconta, “sapendo di mettere in difficoltà le persone attorno a noi, senza avere colpe, sapendo solo che il caso ha voluto che noi ci trovassimo in quella città proprio in quei giorni. Finalmente a marzo parto per l’Argentina, un viaggio meraviglioso, una terra straordinaria. Vado sia per alcuni concerti a Mendoza, in occasione della gigantesca Festa del Vino che richiama migliaia di turisti da tutto il mondo, sia per ritrovarmi con i miei parenti a Buenos Aires. Quei venti giorni sono stati gli ultimi giorni di “normalità”, in quanto il Covid continuava a girare ormai in tutto il mondo. Rimaniamo lì fino al 16 marzo, giorno in cui il governo argentino decide di farci ripartire due giorni prima del previsto, con un espatrio forzato per evitare di rimanere nel lungo look down che ha coinvolto il popolo argentino. Il ritorno a Civitella Roveto, mio paese di residenza in provincia dell’Aquila, è stato davvero un duro colpo: dopo giorni trascorsi tra migliaia di persone a Mendosa e Buenos Aires, ci ritroviamo in un mondo nuovo, svuotato, fermo”.
“In Italia”, spiega, “al nostro ritorno, era già iniziato da una settimana il lockdown, ma fin quando non lo abbiamo visto con i nostri occhi, non potevamo capire cosa fosse davvero. I mesi a casa passano lenti, ma passano, fin quando arriva l’estate e nonostante le previsioni, a luglio ed agosto si lavora, con i concerti all’aperto si ritrova una piccola e strana normalità. Le formule da concerto da “camera” ci hanno dato la possibilità di cantare e fare musica in molti luoghi e molte piazze del Centro Italia. L’ultimo concerto il 16 agosto a Celano, in piazza, una serata davvero magnifica, un concerto da ricordare. Arriviamo a fine settembre, un paio di serate tra amici e colleghi a Celano ed Avezzano, forse un po’ di leggerezza e la sera del 29, spossatezza e brividi di freddo cominciano a farsi sentire. Una notte davvero difficile: tosse, febbre e affaticamento sono i protagonisti, tra insonnia e preoccupazione, il dubbio di aver contratto il Covid è sempre più forte, oltre all’ inquietudine di aver contagiato altre persone, tra cui mia sorella Francesca, che in quel periodo era incinta e aspettava un bimbo”.
“Mi “quaranteno” a casa all’Aquila”, prosegue, “aspettando la fine dei sintomi e aspettando di capire cosa fare per il tampone (in quel periodo c’era molta più confusione di adesso sull’iter riguardo i tamponi e l’isolamento domiciliare). Dopo due giorni mia sorella che si trovava all’ospedale di Avezzano per un controllo di routine per la gravidanza, risulta positiva al Covid e viene tenuta in isolamento presso lo stesso ospedale per quattro giorni, in attesa di essere visitata. In quei giorni Francesca riceve pochissime visite da parte del personale, anche in virtù della sua positività al Covid: quattro giorni di attesa, senza nessuna risposta, sapendo solo che in caso di criticità sarebbe stata portata all’ospedale San Salvatore dell’Aquila. Purtroppo la situazione si aggrava e i medici decidono di trasferirla all’Aquila, dove l’equipe medica decide (è l’estrema ratio) di operare con un parto cesareo e far nascere il bimbo che ha solo cinque mesi e mezzo. Nel tardo pomeriggio il bimbo nasce, i medici pensano che ce la farà, ci fidiamo di loro. La gioia è tanta, nonostante la situazione, è un’emozione grande per la famiglia e per gli amici. Al telefono si susseguono le telefonate per gli auguri e per condividere seppur a distanza la felicità del momento. Ma il mattino dopo mi arriva la telefonata di Francesca: purtroppo il bimbo, il suo nome Allan, non ce l’ha fatta”.
“E’ un momento drammatico per la famiglia e soprattutto per Francesca”, prosegue, “che è costretta a vivere da sola e isolata in una camera d’ospedale quel trauma, quei momenti. Cerchiamo di farla dimettere il prima possibile, perché rimanere in quella stanza da sola, significa peggiorare solo la situazione e continuare a vivere quel dramma. Dopo una settimana viene dimessa e in un certo senso, è stata una fortuna che anche io fossi risultato positivo al Covid, perché altrimenti Francesca sarebbe dovuta rimanere lì in ospedale per altre settimane, da sola. Arriva a casa da me, e insieme trascorriamo due settimane, tra alti e bassi, con tutte le difficoltà del momento, fin quando lei si negativizza e può tornare a casa dal suo compagno. Intanto la mia situazione riguardo i tamponi diventa sempre più assurda e tragicomica. Il primo tampone ad Avezzano, poi vengo trasferito, (vivendo all’Aquila), sotto il controllo dell’Ufficio d’Igiene. Qui comincia un lungo “calvario”, in cui oltre ad una struttura sanitaria decadente e poco efficiente, anche l’avanzare impetuoso della seconda ondata (siamo a fine ottobre) che ha messo in crisi seria tutta la struttura sanitaria abruzzese. Dopo aver fatto il secondo tampone “per caso”, perché erano venuti qui a casa a farlo a Francesca e l’operatore, per sua iniziativa, ha ritenuto giusto fare il tampone anche a me, sono caduto nel dimenticatoio”.
“Dopo venti giorni il vuoto più totale”, continua a raccontare, “il medico di famiglia che dice di non poter fare nulla, il centralino dell’Ufficio d’Igiene totalmente intasato e per più di una settimana non si riesce a prendere la linea, il medico al quale sono stato affidato completamente scomparso: era stato difficile addirittura capire chi fosse, avere il suo nome e il suo numero e anche lì la risposta arriva solo dopo molti giorni. Intanto l’isolamento domiciliare si fa sempre più lungo e sofferente: per quanto ormai siamo abituati a rimanere in casa, la sessa casa diventa una galera, oltre a quello, il sentirsi abbandonato, annullato, tenuto nel buio. Ed è proprio nel buio che ci si sente di stare: ad un certo punto la mente comincia a rivoltarsi e lì la difficoltà a relazionarsi anche al telefono. Si aspetta solo la mail per il tampone. Ad un certo punto subentra la difficoltà a parlare al telefono con amici, parenti, conoscenti: tutto si chiude, tutto è cupo e tutto perde senso, si perde il gusto della vita, delle cose, perché ogni cosa è autoreferenziale dentro casa, senza poter uscire neanche per la spesa. Solo dopo ben 46 gioni arriva la mail, nella notte, della negativizzazione. La sensazione di libertà è però vana, ci si sente liberi ma traumatizzati, decolorati: svuotati di ogni emozione, di ogni sentimento. Quello che dicono riguardo la perdita del gusto e dell’olfatto, vale secondo me anche per le emozioni: il Covid ti toglie il gusto della vita e ritrovare e toccare certe sensazioni è davvero dura, difficile. Oltretutto i postumi sono tanti”, conclude, “anche per chi come me non ha avuto forti sintomi: ci vuole tempo e grande resilienza, soprattutto se sei un cantante, nel senso che con la voce “ci campi”, e allora in quel caso diventa difficile tornare alla vita “normale”.