L’Aquila. In occasione di un recente incontro a Casali d’Aschi sulla convivenza Uomo-Orso, il Direttore del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise (PNALM) ha svolto alcune considerazioni, riportate dalla stampa, sulla possibilità di aprire la caccia al Cervo al di fuori dell’area protetta.
A detta del Direttore sarebbe possibile (anzi, necessario!) ipotizzare un contenimento non solo al Cinghiale (attività già peraltro attuata da anni con scarsissimi risultati concreti), ma anche al Cervo: per il direttore Sammarone l’attività venatoria sarebbe capace di alimentare non meglio definiti riflessi economici e si potrebbero coinvolgere i giovani nella gestione di un eventuale flusso turistico legato alla caccia.
Gli argomenti sollevati, gli stessi da sempre portati avanti dal mondo venatorio, meritano alcuni approfondimenti.
In base a quali considerazioni tecniche ed ecologiche si può oggi affermare la necessità di dover contenere e ridurre la popolazione di Cervo in Abruzzo? Lo stesso Piano Faunistico Venatorio della Regione Abruzzo, documento indispensabile per programmare le azioni sulla fauna approvato meno di un anno fa, prevede che ci siano ulteriori verifiche sullo stato della popolazione di Cervo, in quanto per la sua stessa redazione vengono utilizzati dati relativi a una sola annualità, il 2018, sicuramente non sufficienti per avere un quadro esaustivo della presenza e della diffusione della specie. Prima soltanto di ipotizzare un qualsiasi intervento, bisogna dotarsi di approfonditi strumenti di conoscenza, quali ad esempio, la distribuzione puntuale sul territorio regionale, la dinamica, il trend e lo status delle popolazioni, i rapporti sesso/età… di tutto questo si conosce pochissimo. Senza poi tralasciare il fatto che il Cervo ha un ruolo fondamentale nella catena alimentare, rappresentando, ad esempio, un’importante fonte trofica per il Lupo.
È poi noto che molta dell’eventuale pressione venatoria sui Cervidi andrebbe a ricadere nelle zone di presenza dell’Orso bruno marsicano al di fuori delle aree protette, aggiungendo ulteriore stress in territori dove la caccia ad altre specie è già permessa.
Anche il riferimento agli aspetti economici e ai flussi turistici legati alla caccia non sembra poggiare su dati realistici. È noto che il numero di cacciatori sta (fortunatamente) diminuendo in tutta Italia essendo passati dagli oltre 2 milioni degli Anni ’70 a meno di 500.000 nel 2020, in gran parte anziani. Le presenze turistiche evidenziano invece come la natura sia un settore in forte crescita: basta ricordare i dati della scorsa stagione estiva, quando migliaia di persone hanno scelto di visitare l’Abruzzo e le sue aree protette. Il turismo venatorio, mordi e fuggi, è in contrasto con la prima forma di accoglienza, rappresentando peraltro un serio pericolo per chi vuole semplicemente passeggiare in natura come testimoniano i dati sulle vittime della caccia che vengono resi noti ogni anno.
Il Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, che si accinge a festeggiare i 100 anni dalla sua istituzione, e le altre aree naturali protette della nostra regione possono vantare un modello di turismo naturalistico fatto di guide, percorsi, rifugi, microricettività, attività esperienziali e scoperta, che potrebbe essere, questo sicuramente, esportabile anche in altre aree interne. I giovani dell’Abruzzo montano hanno bisogno di un altro tipo di politica, di progetti, di crescita culturale che portino per esempio al potenziamento dell’agricoltura e della pastorizia sostenibili, in modo che sempre più giovani possano essere nelle condizioni di scommettere per il proprio futuro su queste attività; non certo di chi gira armato sulle nostre montagne divertendosi a sparare ad animali indifesi!