Avezzano. “Ho ricevuto in questi giorni una lettera, in cui lo scrivente dichiara che, a lui, il Natale non dice più niente e ch’egli lo ha lasciato ormai dietro le spalle. Sento in questo momento tutta la pena e la tristezza di queste parole per il mistero di rivolta che esse contengono, per questa chiusura del cuore, per questa incapacità di sentire il mistero del Natale. Che cosa ne faremo del Natale, miei cari fratelli? Che cosa rappresenta per noi il Natale? L’amico lontano ha dato la sua risposta: una inutile memoria, un vano ricordo che non dice più niente e che è ormai dietro le spalle”.
“Non siamo di fronte ad una commemorazione storica: siamo davanti a qualche cosa di vivo, che impegna, che esige un atteggiamento ed una scelta. Noi non commemoriamo, noi ricordiamo. Non è una memoria, il Natale, è qualcosa di ben di più. Quando noi pensiamo al mistero del Natale, mistero di Incarnazione, noi sentiamo che Cristo, Dio fatto uomo, appartiene all’uomo, è dentro l’uomo”.
“Non è una religione d’intonaco, la nostra. L’uomo porta dentro la presenza, il fermento, lo sconcerto di questa adorabile presenza divina; presenza di un Dio che si è fatto uomo non soltanto per vivere in noi e partecipare alla nostra vita quotidiana, ma anche per poter dare a questa nostra vita un senso, una forza di elevazione, una speranza che va aldilà della brevità della nostra giornata”.
Era il Natale del 1955, e la comunità di Bozzolo ascoltava queste parole del suo parroco, don Primo Mazzolari. Non era un’omelia melensa: spaccava il cuore di chi l’ascoltava perché, prima, Cristo aveva spaccato il cuore di don Primo. D’altronde Betlemme era e rimane crocevia di una scelta: o con Cristo o senza Cristo. No.
Non giudico quanti si lasceranno appena sfiorare dalla vertigine della Natività e la vivranno con una ritualità di simboli dai variegati significati. Quanti si limiteranno a pagare un tributo di circostanza ad atti di devozione (“una religione d’intonaco” appunto). Non giudico, anche perché soffro la fatica di giudicare me stesso, ed è così difficile guardare la realtà con occhi di misericordia scrutando ogni piccolo frammento di bene. Non giudico e mi affido alla speranza.
Spero in credenti che non si lascino scippare la fede da una cultura dove tutto si equivale, perché l’accoglienza di Cristo “fa la differenza”. Nel pensiero e nella vita. Cristo sceglie come Redentore («A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio», Giovanni 1,12). Spero nella consumazione della ricerca in coloro che si dibattono nell’inquietudine lacerante dei “perché?”. Sentano il fascino di Gesù e da lui si lascino consegnare il Vangelo della Verità che non delude.
Spero in una Chiesa, la nostra Chiesa diocesana, diventata quotidianamente un cantiere dove si muovono pietre vive che non costruiscono recinti, ma porte aperte per l’annuncio di Gesù, unico maestro che lega il tempo all’eternità. Spero in una fraternità che non sia un servizio verbale o un sentimento da “clima natalizio”; ma si snodi nei percorsi delle relazioni e nell’assunzione di responsabilità umane e civili. Una economia fraterna, una politica fraterna che metta al centro l’uomo e la sua dignità sono forse sogni romantici?
Ma non sono romantici i sogni laceranti di chi è senza lavoro, di chi vive nella precarietà, di chi versa lacrime in solitudine, di chi viene respinto e abbandonato in nome della “sicurezza” e del nostro benessere blindato. Il Bambino crescerà e dirà: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare». Dirà e dice oggi. E forse tutto potrà ripartire dalla vergogna di non averlo capito.
E spero anche per me, vescovo di questa terra marsicana che Dio e la Chiesa mi hanno consegnato. Spero che tutti voi, sorelle e fratelli, possiate sempre vedere in me il Pastore che in Gesù ha trovato l’unica ricchezza della propria esistenza. Alimentate la lampada di questa speranza con l’olio della vostra preghiera.
Celebrerò la messa nella notte della natività nel santuario dell’Oriente di Tagliacozzo, grembo della comunità che ha scelto di accogliere una famiglia eritrea arrivata attraverso il corridoio umanitario. Il volto del Bambino ci attende per riaprire il vocabolario della Grotta di Betlemme e rileggere la parola smarrita e dimenticata, fraternità, ovvero Dio stampato nell’uomo e l’uomo nel cuore di Dio.