Dopo quasi trent’anni di ricerca e sperimentazione, il lavoro del cuoco-custode marsicano (anzi roccatano, come tiene a specificare per evidenziare le sue origini dal minuscolo borgo montano di Roccacerro, frazione di Tagliacozzo) Mario Iacomini e dei suoi collaboratori conquista un riconoscimento tanto inedito, quanto prestigioso: è finito sulle pagine di La Voce di Sofia, una delle riviste filosofiche più autorevoli in circolazione. Nata come piattaforma internazionale di dialogo tra pensiero critico, antropologia e scienze umane, la rivista seleziona solo contributi capaci di aprire nuove prospettive, attraverso un gruppo di autori e revisori di comprovata fama e competenza nell’ambito. Che oggi vi compaia l’opera di un cuoco è una piccola rivoluzione: la cucina trattata non come mestiere, ma come campo di indagine culturale e filosofica.
L’articolo – che potete leggere nella sua interezza qui – è denso e ricco di riflessioni, che prendono spunto dall’operato trentennale di Iacomini (teorizzato in maniera sistematica dallo stesso autore nel suo libro del 2010, “Il Rinascimento del Gusto. Carovanando tra due mari“).
Al centro c’è il concetto di tipico, che Iacomini da almeno tre decadi va rileggendo in chiave radicale. Nell’epoca della globalizzazione alimentare, parlare di “cucina tipica” rischia di diventare un paradosso. Gli scaffali dei supermercati e i menù standardizzati hanno sostituito la ricchezza dei sapori locali, imponendo quello che Iacomini definisce “tipicità atipiche”: prodotti che si presentano come tradizionali, ma che in realtà non hanno più alcun legame con i territori da cui dovrebbero provenire. La logica di mercato ha privilegiato la resa economica, selezionando varietà più produttive e uniformi, a scapito della biodiversità agricola e della memoria culturale che vi era custodita.
Tipico non è quindi il biscotto confezionato in fabbrica da portare a casa come souvenir (“tipico” solo che etichetta di marketing), ma il risultato di un legame autentico tra terra, lavoro e memoria. Tipico è, per esempio, il pane fatto con il grano Solina (di cui Iacomini, aiutato dal produttore Fabrizio Valente, è stato tra i primissimi interpreti, quando ancora non andava “di moda”…), coltivato da secoli sui pendii abruzzesi: un seme che racchiude biodiversità, pratiche agricole antiche e saperi artigianali. Ricco di fibre, povero di glutine, capace di adattarsi a climi difficili, conserva una memoria di sapori autentici che sanno di erbe e pascoli montani. Recuperarlo significa salvare un seme dall’oblio, ma anche ridare voce a un paesaggio, a una comunità e a un modo diverso di immaginare il futuro del cibo. In un’epoca in cui la globalizzazione appiattisce i sapori e uniforma le culture, riscoprire questo senso profondo del tipico significa ridare identità al cibo e ai territori che lo generano.
Su questa idea si fonda la ristorazione di custodia (concetto anch’esso affrontato nell’articolo e perorato da Iacomini da almeno un ventennio): una filosofia che vede il cuoco come guardiano di colture, tradizioni e memorie. Iacomini e i suoi soci – Vincenzo Nuccetelli e Beppe Verrecchia – scelgono varietà dimenticate, riportano in tavola erbe spontanee come ortica, luppolo, germogli di faggio, collaborano con agricoltori e mugnai locali. Ogni piatto diventa così un gesto di tutela e racconto, capace di trasformare il pasto in un’esperienza culturale. In un mondo dominato dalle catene globali e dai sapori standardizzati, questa ristorazione si propone come atto di resistenza, ma anche come promessa di futuro.
Un plauso dunque a Mario, con l’auspicio che il suo prezioso lavoro possa essere riconosciuto non solo dal pubblico che ogni sera affolla l’Osteria Futuro, ma anche dalle istituzioni e dalla politica, che potrebbero farne un modello concreto per un nuovo sviluppo sostenibile e radicato in un territorio, quello marsicano, che ne ha davvero bisogno.
(credits: foto di apertura, ritaglio da Francesco Scipioni)