Pescasseroli. E’ una comunità sconvolta dal dolore, quella di Pescasseroli, per la morte di Carlo Macro, 33 anni, studente di Biologia, ucciso a Roma a colpi di cacciavite da un indiano di 57 anni infastidito perché la musica della radio dall’auto del giovane era troppo alta e disturbava lo straniero che dormiva nella sua roulotte.
Carlo aveva origini pescasserolsesi. Suo padre, Antonio Macro, geometra, ex dipendente di Poste italiane, aveva realizzato nella capitale del Parco una struttura alberghiera situata nella zona «in» del paese, dove attualmente risiedono scrittori e registi. Dopo la sua scomparsa, avvenuta a causa di una grave malattia, la gestione è passata alla moglie Giuliana Bramonti, nata in una frazione di Tagliacozzo, e a suo figlio Carlo. Il luogo e la data dei funerali non è stata ancora fissata.
Drammatico il racconto che il fratello Francesco, che era con lui al momento del delitto, fa al Messaggero:
«Mi è morto tra le braccia. È svenuto su di me, mentre guidavo». Francesco Macro piange, mentre ripercorre quella maledetta notte al Gianicolo.
Erano in auto, domenica notte, mentre scendevano dal Gianicolo, di ritorno da un locale in centro. Una serata con gli amici in comune, prima di riprendere la settimana lavorativa. Erano da poco passate le 2, Francesco era al volante, Carlo gli è seduto accanto a lui. «Stavamo ascoltando la musica», ricorda Francesco, che, ieri mattina, ha dovuto dare la notizia alla mamma.
La musica era ad un volume alto, come ha detto l’uomo che ha ucciso tuo fratello?
«No, non era troppo alto, perché stavamo parlando in auto. Insomma, non dovevamo urlare per sentirci e quindi direi che era ad un livello sicuramente normale. È chiaro che tenendo lo sportello dell’auto aperto, fuori si sentiva di più».
Perché decidete di fermarvi proprio in quel punto?
«Era un tratto dopo un rettilineo, ci sembrava un posto sicuro, illuminato. Dovevamo solo fare pipì, tutti e due».
Dove andate?
«Io mi sono fermato poco dopo l’auto, mentre Carlo è andato poco distante, vicino ad una roulotte ferma».
Senti dei rumori strani?
«No, assolutamente. Quando ho finito di fare pipì ho guardato verso mio fratello e ho visto che era fermo, quasi pietrificato, di fronte alla roulotte. Non riuscivo a capire cosa gli fosse successo e per questo sono subito corso da lui».
Qualcuno ha gridato, hai sentito dei lamenti o qualcosa di insolito?
«No, non mi sono accorto di nulla. Quando sono arrivato davanti alla roulotte ho visto un uomo straniero che aveva in mano un corpo contundente affilato».
Come reagisci?
«Ho pensato solo a portare via mio fratello. Non ero tranquillo là. Gli ho detto: “Ma sei scemo? Che fai? Muoviti, andiamo subito via”. Non riuscivo a capire perché non riuscisse a muoversi».
Era sporco di sangue?
«Non ho visto nessuna macchia. Era immobile. Così l’ho preso e l’ho portato verso la macchina. Alla fine, però, è riuscito a fare qualche passo da solo e ad entrare in auto».
Ti ha detto qualcosa?
«No, era in silenzio».
Quando ti sei accorto che era successo qualcosa di grave?
«Poco dopo essere ripartito con l’auto, quando Carlo è svenuto ed è caduto su di me, senza dire nulla».
L’indiano che ha aggredito Carlo dice che aveva discusso con lui, quasi una lite…
«Ci siamo fermati il tempo giusto per fare pipì. Non ho sentito nulla, nessun grido e nessuno che alzava la voce e quando mi sono girato mio fratello era bloccato. Difficile che ci potesse essere stata una discussione in quei pochi secondi e penso che me ne sarei accorto».