C’è un passo del Prometeo, il mito del titano incatenato da Zeus alla rupe, in cui Eschilo scrive: “Io liberai gli uomini dal freddo, insegnai a costruire case; da una cosa sola non li potei liberare: dalla Morte”. Il poeta tragico greco, figlio legittimo del suo tempo, non poteva immaginare che dopo nemmeno mezzo secolo, in un paese non molto lontano dalla sua Atene un certo Gesù di Nazareth avrebbe inaugurato nel cuore degli uomini quella rivoluzione per la quale la morte perde il suo potere al punto da spingere San Paolo a lanciare la famosa sfida contro la morte: “Dov’è, o morte la tua vittoria? Dov’è, o morte il tuo pungiglione?” fino a preconizzarne la definitiva sconfitta: “L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte!” (1 Cor. 15,26). Fa molto pensare allora una Chiesa, nata come comunità liberata e liberante da ogni tipo di schiavitù, anche dalla schiavitù della morte, che si vada ad impantanare nelle acque fluide della paura, del feticismo e del materialismo vitalistico che caratterizzano la sua dura posizione di condanna nei confronti degli strumenti che la scienza offre a che la morte perda, finalmente, la sua disumanità e la malattia la sua devastante atrocità.
Sia chiaro: non si vuole con ciò legittimare la trasformazione della tecnica in strumento di morte né benedire l’ambiguità profonda di una scienza che diventa un delirio di onnipotenza. No! La complessità del problema non deve spingere nessuno ad una apertura qualunquista e superficiale, ma non deve nemmeno imprigionare le possibili scelte nella condanna più assoluta.
Giustamente, il teologo Giannino Piana scrive, a proposito di Eutanasia: «Al di là delle complesse e delicate questioni di ordine politico e giuridico, che vanno affrontate con grande prudenza in una prospettiva non puramente individualista ma attenta ai risvolti sociali e culturali delle decisioni, il nodo fondamentale che occorre sciogliere riguarda l’esistenza o meno del diritto di autodeterminazione nei confronti della morte». (Su Rocca n. 21/2006 pag. 37).
Di fronte al radicale rifiuto del diritto di autodeterminazione da parte della chiesa ufficiale, a partire dal presupposto che la vita è un dono di cui noi non possiamo disporre, vanno emergendo, anche in ambito cattolico, ipotesi alternative (sia pure minoritarie). Vogliamo segnalare, a proposito, il bellissimo libro di Hans Kung e Walter Jens edito da Rizzoli con il titolo: “Sulla dignità del morire. Una difesa della libera scelta”.
Intanto già di fronte alla motivazione addotta contro ogni forma di eutanasia sorgono domande che qualcuno potrebbe vedere “impertinenti” ma che toccano il cuore della teologia. Si dice, appunto: “La vita è un dono di Dio di cui l’uomo non può pienamente disporre”. Ma che dono è ciò che non viene pienamente e definitivamente dato? E che responsabilità è quella per cui si è costretti a gestire la vita per conto terzi? E questo Dio che concede con una mano e trattiene con l’altra cosa ha a che fare con quel Dio che “dona oltre ogni misura”? Sono forse due “Dii” diversi?
Si ha l’impressione, insomma, che la posizione della chiesa ufficiale sia fondata più su preoccupazioni ideologiche che su motivazioni teologiche. Nel panorama della produzione teologica cattolica, poi, non mancano posizioni dall’atteggiamento “possibilista” nei confronti dell’Eutanasia. Tali ipotesi, dopo tutto, si fondano su un principio comunque incontestato, anche se completamente rimosso nell’attuale dibattito. Si parte dal principio che per un cristiano la vita non è “il bene assoluto” cui tutto subordinare! Tanto è vero che il sacrificarla per altri alti valori (la giustizia, la fede, la castità ecc.) è ritenuto, dalla tradizione cristiana, un atto di eroismo e di santità. “Rebus sic stantibus”, direbbero i filosofi, perché ritenere immorale il cessare di vivere quando la vita ha perso ogni connotato di relazionalità con gli altri, ogni traccia di autocoscienza, ogni altra dimensione che, andando oltre la pura vegetalità, dia dignità al vivere stesso? Personalmente ho avuto modo, in più di un’occasione, di trovare più dignitoso il gesto disperato di un suicida che non il pecoreccio vivacchiare di gente senza scrupoli.
Il teologo tedesco Hans Küng, poi, si spinge anche oltre. Dall’affermazione che “il diritto alla vita non può essere scambiato per una coercizione a vivere” alla tesi che “essendo l’inizio della vita umana posto da Dio nelle mani della responsabilità dell’uomo, si può analogamente pensare che anche la fine della vita venga da Dio posta sotto tale responsabilità” (Id).
Il problema dell’eutanasia va correlato sì alla morte, ma questa a sua volta va connessa strettamente alla nozione di “vita” che è qualcosa di molto più alto che il semplice vegetare. L’arroccamento della Chiesa in difesa della vita a prescindere da tutto, dalle condizioni oggettive e soggettive e perfino dalle persone stesse che della vita dovrebbero essere le beneficiarie, lo trovo anche antievangelico come di colui che sacrifica le persone concrete ai principi astratti e che antepone il sabato all’uomo. Una morale autenticamente evangelica dovrebbe stabilire delle finalità di vita piuttosto che esporre regole di condotta.
A tal proposito Gabriel Ringlet, prete belga e vicedirettore dell’università di Lovanio scrive: “I nostri contemporanei vogliono senso, ma rifiutano il pensiero normativo. E la Chiesa fa fatica a produrre senso senza produrre norme. Ecco la straordinaria conversione che le è chiesta”. Mi si permetta, infine, un’ultima osservazione sul problema dell’accanimento terapeutico.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica all’articolo 2278 recita: “L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente se ne ha competenza e capacità”. Riguardo poi all’uso degli analgesici nell’articolo 2279 si legge: “L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile”.
Posto così il problema sembra risolto. L’interrogativo si pone quando, considerati i grandi progressi della medicina, si tratta di distinguere il dovere di cura dall’accanimento terapeutico. Dove finisce l’uno e comincia l’altro? Qui, naturalmente, si richiede un altissimo senso di responsabilità ed una grande maturazione di coscienza.
Il dramma cui oggi siamo costretti ad assistere è costituito dallo scollamento che si è prodotto tra la scienza e la coscienza, tra l’avanzamento delle possibilità tecniche e l’arretramento del sentire morale al punto tale di ritrovarci tra le mani strumenti che la coscienza non sa gestire. Le tragiche conseguenze di questo handicap morale e culturale sono sotto gli occhi di tutti. Abbiamo messo su (e la difendiamo a denti stretti) un’economia che miete milioni di vittime ogni giorno e in gran parte del mondo. Ci facciamo sostenitori di una politica che crea emarginazioni di ogni tipo.
Nel contempo, però, ci precipitiamo sul capezzale del povero crocifisso di turno per farne motivo di crociate ideologiche di parte, strumentalizzando senza pudore il suo calvario. I caso di Welby e di Eluana Englaro insegnano…. Insomma ci ritroviamo pienamente immersi in una società nella quale si inneggia alla vita mentre si programma scientificamente la morte.
Qualche anno fa Giorgio Agamben, su uno dei più diffusi quotidiani italiani, ebbe a scrivere che il paradigma politico dell’occidente non è più la città ma il campo di concentramento.
Non Atene, nemmeno quella di Eschilo, ma Auschwitz…. E non vorrei che in questa moderna Auschwitz si impiantino nuove strumentazioni che torturino le esistenze in onore della vita e del dono delle vita ne facciano, ironia della sorte, una condanna a vita. Mourir n’est rien; ne pas vivre est terrifiant!