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Debutta sabato nel teatro S. Francesco di Pescina Fontamara, l’allestimento tratto dal romanzo di Silone

Giulia Antenucci di Giulia Antenucci
28 Febbraio 2019
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Pescina. Debutta sabato, alle 21, nel Teatro San Francesco di Pescina, “Fontamara”, il nuovo spettacolo coprodotto dal Teatro Stabile d’Abruzzo e dal Teatro Lanciavicchio, tratto dal romanzo di Ignazio Silone con l’adattamento scenico e la drammaturgia di Francesco Niccolini. Una straordinaria pièce che porterà in scena la storia di Berardo Viola e di Elvira, dei fontamaresi e di quel mondo di abusi e soprusi di cui furono tragicamente vittime.

I cafoni di Silone, oppure i fantasmi di uno spaccato della società di mezzo, la guerra e il fascismo da una parte, i latifondisti e l’avidità dall’altra, il tutto raccontato attraverso la straordinaria recitazione di 5 attori, 5 personaggi che daranno voce, a turno, a più personaggi, a volte vittime, altre carnefici. La produzione è in collaborazione con il Centro Studi Ignazio Silone, il Comune di Pescina e il Comune di Avezzano. In scena Angie Cabrera, Stefania Evandro, Alberto Santucci, Rita Scognamiglio, Giacomo Vallozza, diretti da Antonio Silvagni. Musiche originali di Giuseppe Morgante.

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Voci e fantasmi, talvolta fantasmi di fantasmi. Così i cinque attori danno voce a un mondo, a un paese, ai suoi abitanti e pure ai loro carnefici. Raccontano quel mondo  quasi fosse un’opera sinfonica a più voci Le voci dei protagonisti si accavallano con quelle dei personaggi minori: ogni attore deve acrobaticamente passare da un’identità all’altra. Giuvà, Matalè, il loro figlio, Marietta, Scarpone, e poi il generale Baldissera, Papasisto, Venerdì Santo, Ponzio Pilato, Betta Limona, l’impresario, il cavalier Pelino, don Circostanza, le mogli, i carabinieri, un prete venduto e un sacrestano disperato.

Un mondo si affolla sul palcoscenico attraverso una partitura ferrea, un’alternanza di presenze e testimonianze. Perché di testimoni si sta parlando: quasi fossimo di fronte a un giudice, o forse al Giudizio Universale, sono tutti chiamati a ricostruire quei giorni osceni pieni di vergogna violenza e disumano accanimento sui più indifesi.

Mano a mano che l’intreccio di sviluppa, prendono corpo le storie dei Fontamaresi e degli abusi dei poteri forti ai loro danni. Più l’ombra incombente del fascismo che si sposa con gli interessi dei latifondisti. E insieme, la storia dei due protagonisti assenti, Berardo ed Elvira: in mezzo a questo concertato di voci, solo le loro mancano. Berardo ed Elvira esistono solo nel ricordo degli altri. Eppure, qui, sono tutti fantasmi. A parte un unico sopravvissuto: il figlio di Giuvà e Matalè. Solo lui si è salvato. Da lui parte il racconto: se fossimo davvero di fronte a un tribunale, lui sarebbe il supertestimone, quello da proteggere, quello da cui dipende la riuscita o meno del processo. Lui evoca tutti i fantasmi, e i fantasmi si presentano e a loro volta i fantasmi ne generano altri e altri e altri ancora. Fino alla fine. Fino alla strage. Fino al genocidio. Perché di genocidio si tratta.

“Torno a Fontamara 35 anni dopo il mio primo viaggio”, racconta Francesco Niccolini, “allora avevo 15 anni: la forza disperata dei tre testimoni protagonisti del capolavoro di Silone non mi ha mai abbandonato. Quello stile piano, colmo di dignità e al tempo stesso di umiliazione, l’ironia della scrittura e la ferocia dei potenti. I privilegi dei ricchi, la loro ingordigia, la presa in giro spietata di un mondo destinato al genocidio. Perché un genocidio è stato. Solo che allora non avevo gli strumenti per capirlo”.

“Quando vent’anni fa ho avuto la fortuna di lavorare con Marco Paolini e Gabriele Vacis al Racconto del Vajont”, spiega, “uno dei capitoli più duri da studiare e al tempo stesso esempio di coraggio e forza morale, è stata la lettura dell’arringa dell’accusa, scritta dall’avvocato Sandro Canestrini, ora novantaquattrenne: ne fece un piccolo libro, un autentico pamphlet, che intitolò Vajont:genocidio di poveri.Ecco, tornando a Fontamara a distanza di tanti anni, e con molti chilometri e incontri belli e tragici sulle spalle, penso che questo romanzo capolavoro sia un altro capitolo fondamentale per chi ha deciso di raccontare quel genocidio. Ora, insieme agli attori cafoni  come si definiscono loro stessi del Teatro Lanciavicchio e ad Antonio Silvagni, provo a portare quelle voci e quei fantasmi sul palcoscenico.”

 

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