Avezzano. Confagricoltura interviene sui prodotti a chilometri zero e rigorosamente made in Italy: basta chiacchiere, servono politiche lungimiranti. “I dati forniti dal Sindaco di Avezzano Di Pangrazio a sostegno delle tesi della Coldiretti raccontano una storia a metà”, hanno spiegato da Confagricoltura, “è certo che i cittadini Italiani, non solo di Avezzano, devono consumare il 40% di prodotti alimentari provenienti da tutti i mercati del mondo (e non solo Banane e Caffè) tuttavia la domanda da porsi è: qualora non s’importassero i prodotti alimentari cosa dovrebbero mangiare gli avezzanesi e gli italiani? E ancora: quali sono le ragioni che spingono milioni d’italiani ad affollare i centri commerciali e i discount con in mano un volantino alla ricerca del prezzo più basso per riempire il carrello della spesa? Crediamo che il Sindaco sia consapevole che oltre il 90% della popolazione italiana, e in primis chi ha perso il lavoro e chi per la crisi economica non arriva alla fine del mese, non possa permettersi di acquistare prodotti tipici italiani (che non basterebbero per nessuno) magari biologici (altrettanto rari e costoso) a prezzi inaccessibili ai più. Il problema può essere spiegato con questa tabella che dimostra come l’Italia abbia perso capacità produttiva in quasi tutti i comparti e, quindi, è costretta a importare quasi tutto. In Italia siamo autosufficienti solo nel comparto delle carni avicunicole, delle uova mentre produciamo ortofrutta e vino più di quanto ne consumiamo. E allora, per raccontare l’altra metà della storia, diciamo che l’agricoltura, al pari degli altri settori produttivi in profonda crisi, ha subito la mancanza di vere politiche economiche indirizzate a renderla competitiva. Fuorviati dalla rappresentazione folcloristica del settore agricolo, avendo riempito la televisione ed i media di cuochi e casalinghe tutti dediti alla preparazione di piatti con prodotti di nicchia non abbiamo tenuto conto che le aziende perdevano competitività e chiudevano cosicché le eccellenze agroalimentari italiane: pasta, prosciutti e salumi, olio di oliva, devono essere fatti anche con materie prime importate. Per non parlare dei prodotti a marchio DOP e IGP il cui 84% del fatturato è rappresentato da 10 prodotti (su 261 registrati) con in testa Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma e di San Daniele, Mozzarella di Bufala ecc. Lo stato di confusione del resto è dimostrato dalla non conoscenza di quante siano le imprese agricole italiane e abruzzesi visto l’estremo divario dei numeri ufficiali riportati nella tabella. E’ evidente quanto sia importante che una politica accorta e lungimirante destini le risorse del nuovo PSR (piano di sviluppo rurale) al miglioramento competitivo delle imprese agricole professionali capaci di stare sul mercato e in grado di produrre un cibo “democratico” rivolto alla maggioranza dei cittadini italiani. La battaglia di retroguardia della Coldiretti non porterà nessun beneficio agli agricoltori italiani né ai consumatori a meno di ritenere che il cibo, quello italiano ritenuto buono, genuino, tipico e biologico a caro prezzo sia appannaggio solo delle fasce “agiate” dei consumatori mentre quello importato scadente, ritenuto di bassa qualità riservato alla moltitudine dei cittadini italiani che devono accontentarsi delle “schifezze”. L’industria alimentare italiana (132 miliardi di fatturato, 400mila dipendenti, 7mila aziende), assorbe oltre il 70% dei prodotti agricoli nazionali ed è strutturalmente obbligata a importare materie prime agricole a integrazione di una produzione nazionale largamente insufficiente. Confagricoltura L’Aquila non discute i problemi della contraffazione e della trasparenza delle etichette, da affrontare e risolvere così da consentire ai consumatori di scegliere, tuttavia l’agricoltura italiana non si difende impedendo l’entrata di prodotti agricoli, ma sostenendola per consentirgli di realizzare gli investimenti necessari per modernizzarla e allinearla con quella degli altri Paesi europei. Basta scaricare le nostre colpe sugli altri la storia insegna che scelte sbagliate come il principio del disaccoppiamento (gli agricoltori ricevono gli aiuti anche senza l’obbligo di produrre) fortemente sostenuto dalla Coldiretti negli anni scorsi, la chiusura degli zuccherifici, la cattiva gestione delle quote latte si pagano e restano a carico della collettività nazionale”.