Avezzano. Nel 108° anniversario del terremoto del 1915 vogliamo pubblicare una poesia che l’insigne poeta abruzzese Cesare De Titta compose per celebrare quel tragico evento.
Nella poesia, per molti inedita, l’estro di Cesare De Titta si cimenta con malinconici distici in latino, con cui l’autore commemora la sciagura abbattutasi su Avezzano e sull’intera Marsica, distrutte per sempre dal secondo terremoto più potente della storia d’Italia. La poesia che qui di seguito vi proponiamo venne in seguito tradotta dall’insigne concittadino Giovanni Pagani, che poi la inserì nel suo splendido “Avezzano e la sua storia”, un poderoso volume di oltre 800 pagine con cui il Pagani nel 1968 riunì le vicende storiche di Avezzano e di molti paesi marsicani, tra cui ovviamente non mancano anche i numerosi riferimenti al terribile terremoto della Marsica del 1915.
Ave Jane
(di Cesare De Titta)
Queae nuper fuit urbs florens, jacet ampla ruina;
est mors, quae nuper fervida vita fuit.Obruta cuncta latent saxis, quae pulchra fuerunt
per fora perque vias templa theatra domus.Si qui de miseris orbi solique supersunt,
corda, repente malis saxea facta, stupent.Transiit hac hydros quatiens tellure Medusa?
Cuncta rigor lapidum duritiesque tenet.Aures e saxis deserta silentia tendunt,
e saxis oculos squalidus horror habetLux quoque durescit, si tristet dimovet umbras;
vox quoque, si tentat muta sepulcra, rigetConstitit hic Niobe, in silicem conversa dolore?
O matres, quantum vos iuvat esse lapis!
Avezzano
(traduzione di Giovanni Pagani)Quella che dianzi fu città fiorente, giace in grande rovina;
è morte, quella che fu testè fervida vita.Son tutte sommerse da pietre le cose che furono belle
per le piazze e le vie, templi, teatri, palazzi.Se dei miseri sopravvivono alcuni, orfani e soli,
stupiscono i cuori, per la sventura repente fatti di sasso.Squassando il crin di serpi passò per questa terra Medusa?
La rigida durezza delle pietre in sé tutto rinserra.Gli orecchi dalle pietre tendon silenzi deserti,
dalle pietre gli occhi squallido orror solleva.La luce persin divien dura, se le tristi ombre fuga;
petrosa si fa pur la voce, se i muti avelli invoca.Qui Niobe si fermò, dal dolore in pietra mutata?
O madri, l’esser di sasso quanto vi soccorre!