Avezzano. Mi ribello dunque siamo è il titolo di un saggio poco conosciuto di Albert Camus. L’idea è che la rivolta si accenda grazie all’empatia per la sofferenza altrui: la ribellione è solidale. Ed è forse questo il senso profondo di Annacuccù, romanzo sulla scintilla che incendia l’oppressione.
Con Annacuccù, edito da Castelvecchi, il giornalista Primo Di Nicola – penna de L’Espresso e de Il Fatto Quotidiano, ex direttore de Il Centro, oggi senatore – si cimenta per la prima volta nel romanzo, senza dimenticare il cuore della professione: sguardo attento e inquisitivo, messa a nudo dei fatti, un realismo che è stato accostato al verismo di tradizione ottocentesca. Difatti al centro del romanzo c’è una storia di “umili”: gli abitanti del paesino di Riosogno, visti attraverso gli occhi di Cosmo, 11 anni, che può solo assistere inerme ai soprusi del “sindaco-padrone”. Ma il fatto che Riosogno non venga mai collocato geograficamente o storicamente ci ricorda subito, più che Verga, l’universalità della condizione di “cafone” di cui parla Fontamara. Riosogno è ovunque nel Sud del mondo, ovunque dove un bambino venga costretto a crescere troppo in fretta: che siano le banlieue parigine, le favelas brasiliane o un borgo italiano segnato indelebilmente dalla guerra e dalla povertà.
Annacuccù (il titolo viene da una filastrocca infantile) non è un romanzo autobiografico ma forse lo è – se si può parlare di “autobiografia generazionale” nel solco di Ignazio Silone: in controluce sulla pagina vediamo la filigrana inconfondibile della natura e cultura abruzzese, se non specificatamente marsicana. E infatti, come ci insegna Silone, anche in Annacuccù lo spiraglio di speranza è la parola: da proprietà esclusiva della élite e strumento di coercizione e inganno, il linguaggio diventa una fune formidabile gettata al di là dell’orizzonte sociale senza uscita di Riosogno. E non è un caso che il seme della ribellione, per il giovane Cosmo, sia iniziare a scrivere un diario – “anche se non sa neanche cos’è” – proprio come in 1984 di George Orwell.