Pochi giorni fa ho avuto il piacere di essere invitato dalla FIT (Federazione Italiana Tabaccai) a una delle mostre più ambite dell’anno che si stanno tenendo nella capitale, a Palazzo Barberini: Caravaggio 2025.
Ho colto l’occasione per trascrivere le emozioni provate. Occasione più unica che rara, poiché, avendo partecipato a un evento molto esclusivo, ho potuto osservare i numerosi quadri e fare domande al riguardo e, al termine della visita, ha cenato insieme al resto del gruppo – una settantina di persone circa- presso la Sala Pietro di Cortona, all’interno dello stesso storico edificio.
Dunque la cosa migliore che si possa fare è commentare e riportare le impressioni su questa serata: Lorenzo Merisi, meglio noto come Caravaggio, ha segnato il passaggio dall’arte rinascimentale a quella moderna, grazie alla sua tecnica, al suo uso del chiaroscuro e ai suoi soggetti presi dal volgo.
La mostra conta una nutrita raccolta della sua produzione artistica, proveniente da musei sparsi in tutta Europa, un vero e proprio percorso lungo la vita del pittore “romano”; romano e non milanese – per quanto Milano sia la sua terra natale – perché Roma è stata per Caravaggio la città che più ha amato, la sua seconda patria, che ha mostrato nelle sue opere e che ha riprodotto nelle scene di vita quotidiana.
Tra i quadri più emozionanti e incredibili per me: i famosi “Bacchino malato”, il “Narciso”, “Giuditta e Oloferne”, “Ecce Homo” e “Marta e Maria Maddalena”. Ma cosa rende un quadro bello agli occhi di un profano? La capacità di trasmettere il messaggio desiderato attraverso un dettaglio di secondaria importanza, come il fiore d’arancio tra le dita della Maddalena, lo sguardo che si ritrae di Giuditta, il sangue che scende copioso dalla testa di Cristo in “Ecce Homo”, il colorito smorto del Bacchino – autoritratto dell’artista che, mentre lo dipingeva, era malato in seguito a una caduta da cavallo.
Tuttavia Caravaggio non è fin da subito l’artista del chiaroscuro a cui siamo abituati: difatti la sua prima produzione artistica, come “I bari” o la “Buona Ventura”, presenta uno stile che cura i dettagli, a partire dagli abiti veneti, il guanto bucato di un baro o le carte dietro la schiena dell’altro baro, raffigurando su sfondi chiari soggetti provenienti da vari ceti sociali.
Una nota ricorrente in tutti i quadri? Un telo rosso, rosso sangue o rosso scuro.
Una caratteristica piacevole? Caravaggio che si ritrae, oltre negli autoritratti, in molte sue opere, come ne “Il Concerto”, “La cattura di Cristo”, il già citato “Bacchino malato” e molte altre; in questi quadri tuttavia egli sceglie quasi sempre un ruolo marginale.
Un quadro che ammirerei per ore? “Giuditta e Oloferne”: quello sguardo che si accorge dell’atto orribile che le mani stanno compiendo, quelle mani così distanti dal viso, quello sguardo che si incrocia con gli occhi di Oloferne che ha la testa reclinata al limite, quello sguardo così diverso dall’espressione carica d’odio della serva che stringe tra i pugni il sacco dove riporre la testa di Oloferne.
Un dipinto che ha superato le mie aspettative? “Marta e Maria Maddalena”, un quadro carico di dettagli della scuola fiamminga: il fiore d’arancio (simbolo delle future “nozze” con Gesù), il dito che indica la luce riflessa (simbolo di fede) nello specchio, i trucchi davanti alla donna (la vanitas), lo specchio convesso (anch’esso simbolo di vanità, come nel “Narciso”). La scena inoltre è divisa in due: Marta a sinistra, vestita in maniera umile e in parte oscurata, che prova a convincere la Maddalena, a destra, vestita raffinatamente, con la luce che le illumina il viso, segno della conversione avvenuta.
Uno che le ha deluse? La versione di “Davide con la testa di Golia” proveniente da Villa Borghese; quadro stupendo invero, in cui Caravaggio si ritrae come Golia, che però presenta dei colori molto spenti e pochi oggetti che risaltano all’occhio. (Lo stesso soggetto della versione conservata a Vienna – non presente nella mostra – invece cattura molto di più!).
Un quadro pieno di dettagli? “Cena in Emmaus”, con natura morta, soggetti che compiono azioni, una tavola imbandita, un gioco di colori affascinante.
Tutte queste ovviamente sono solo mie impressioni, omaggio di un liceale che non ha ancora studiato in maniera approfondita questo grande artista.
Giunto alla fine vorrei perciò ringraziare il presidente della FIT Mario Antonelli e il Direttore Generale Stefano Bartoli per la meravigliosa occasione che ho vissuto e che mi ha aperto le porte ad una mostra che celebra uno dei geni chiamato, a diritto, Maestro del chiaroscuro e della luce. Valerio Montaldi