Capistrello. Carmelo Mancini, sul bollettino archeologico napolitano pubblicato nel 1859, descrive un’antica grotta idrofora, situata all’uscita dell’emissario Claudio, che a suo dire prima di allora nessuno aveva descritto. Il Mancini dice di esserne venuto a conoscenza studiando una mappa topografica della diocesi dei Marsi, incisa nel 1735, su cui nemmeno il Mommsen, con suo grande rammarico, riuscì mai a mettere le mani.
In effetti nella cartina sopracitata, allegata qui di seguito, c’è un punto nei pressi dell’uscita dell’emissario Claudio indicato con la voce “Specous Craterum”. Il Mancini ci fornisce persino le indicazioni su dove si trovi questo speco sotterraneo: a partire dal vertice dell’antico arco o peristilio che sovrasta lo sbocco dell’emissario, bisogna contare circa 55 metri a sud-est dell’uscita dell’emissario di Claudio, nelle vicinanze del fiume Liri.
Allegato alla pubblicazione il Mancini riporta anche due piante di questo antro sotterraneo, una fatta dal De Revillas e una da lui, che però ci tiene a sottolineare, sono solo il prospetto del primo piano della medesima, poiché in quella che si prolunga in profondità ci sono altri bacini ignoti. I disegni sono una pianta dall’alto e una ricostruzione tridimensionale, dove si possono vedere queste specie di vasche concentriche, che somigliano tantissimo ai gironi dell’inferno dantesco.
Il Mancini passa quindi a descrivere le diverse cavità, distinguendone una iniziale (B), una successiva (C) che prima si divide in due (C-C), e poi si suddivide in ulteriori 10 bacini, per poi giungere al bacino più grande, identificato con la (D) che termina con una conca ellittica con diametro di m 3.20 x 2,15, tutto scavato nella roccia. Più avanti lo speco prosegue, con quattro nuovi bacini (A) che poggiano uno sull’altro. L’ultimo è il più grande, anche questo con la forma di una conca ellittica, con dimensioni di m 1.90 x 1.00.
Ma chi ha costruito quest’opera e soprattutto a cosa serviva? Il Mancini ipotizza che quest’opera venne scavata nella roccia dai romani contestualmente allo scavo dell’emissario claudiano, per raccogliere e rendere potabile l’acqua che stillava dalla volta del monte. I romani, che a loro volta avevano imparato dagli Etruschi a rendere le acque salubri con le perforazioni orizzontali dei monti, idearono e costruirono questa struttura come un moderno depuratore a cascata, dove vasca dopo vasca l’acqua diventava più limpida e potabile. Le acque del fiume Liri, che normalmente erano abbastanza limpide, dopo le piogge diventavano torbide e limacciose, pertanto imbevibili. In questo modo, invece, i romani risolsero brillantemente il problema di rifornire d’acqua il cantiere all’uscita sul versante di Capistrello, e dissetare così in maniera del tutto naturale le migliaia di schiavi che in quegli anni vennero impiegati per lo scavo dell’emissario sotterraneo. Francesco Proia (autore dei romanzi “Polvere di Lago” e “Il Principe del Lago”)