Avezzano. “Causa dello spopolamento del territorio marsicano non è solamente la mancanza di opportunità formative e lavorative, ma anche un ambiente che, se in passato era ostile, oggi non è ancora del tutto accogliente e inclusivo nei confronti delle unicità di ogni persona. La crescita e la valorizzazione economica del nostro territorio non possano prescindere dall’eliminazione di ogni forma di pregiudizio ed emarginazione a livello sociale, culturale e lavorativo nei confronti delle persone Lgbt, la politica ha il dovere di dare risposte chiare e specifiche su questo punto”. Esordisce così, nell’appello ai candidati alle elezioni politiche del 25 settembre, il portavoce della realtà associativa Marsica Lgbt Odv-Ets.
“Marsica Lgbt Odv-Ets”, spiega il portavoce, “come realtà associativa in espansione operante da diversi anni nel territorio marsicano, alla luce dell’ormai imminente appuntamento elettorale nazionale, desidera porre all’attenzione della politica una tematica importante, quella del contrasto alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità ed espressione di genere. In quest’ottica, risulta assai significativa la testimonianza affidata pochi giorni fa ad un post su facebook dall’artista marsicano Eugenio Percossi, nato e cresciuto ad Avezzano, residente da ormai 15 anni a Praga, dove continua a coltivare la sua passione ed è proprietario di un castello di epoca rinascimentale, abbandonato a seguito della fine del secondo conflitto mondiale e recentemente restaurato grazie alla sua opera, insieme al compagno di vita Alberto. Le sensazioni e le difficoltà sperimentate da Eugenio durante la sua difficile adolescenza degli anni ’80, segnata dal rifiuto familiare, da prese in giro oltre che da episodi di bullismo ricorrenti, sono simili a quelle che hanno dovuto affrontare molte persone con un orientamento sessuale o espressione di genere non conforme alle aspettative sociali, che hanno vissuto nel nostro territorio il periodo dell’adolescenza e della prima giovinezza. È proprio in questo periodo che si inizia a maturare, divenendo sempre più consapevoli dei propri orientamenti e della propria identità, scontrandosi al contempo contro il muro dell’ignoranza, del pregiudizio dell’incomprensione, in alcuni casi della violenza, le quali paradossalmente rischiano di essere tanto più forti quanto più si prendono in considerazione persone che in teoria dovrebbero essere le prime a sostenere ed a supportare il difficile processo di affermazione delle individualità, come familiari, compagni di classe, amici, colleghi”.
“Si parla molto spesso di mancanza di talenti e competenze”, conclude, “di emigrazione dei giovani, di spoliazione del territorio marsicano, senza tuttavia porre a nostro avviso adeguata attenzione sul fatto che molti giovani sono stati e sono tuttora spinti a fuggire dal territorio marsicano non soltanto per via della mancanza di opportunità formative e lavorative, ma anche a causa di un ambiente che, se in passato era ostile, oggi non è ancora del tutto accogliente e inclusivo nei confronti delle unicità di ogni persona. Riteniamo che la crescita e la valorizzazione economica del nostro territorio non possano prescindere dall’eliminazione di ogni forma di pregiudizio ed emarginazione a livello sociale, culturale e lavorativo nei confronti delle persone Lgbt: la politica ha il dovere di dare risposte chiare e specifiche su questo punto. Ogni singolo appartenente della comunità marsicana ha la possibilità, dal canto suo, di dare il proprio contributo per migliorare la condizione di vita di tanti cittadini che sono nati e cresciuti nella Marsica, che amano questo territorio e che non dovrebbero essere costretti ad abbandonarlo per via di retaggi culturali antiquati che nel 2022 dovremmo essere in grado di lasciarci le spalle. Ad Eugenio va un ringraziamento speciale per il coraggio dimostrato con la sua testimonianza, il nostro auspicio è che possa fungere da stimolo di riflessione per molti”.
La testimonianza di Eugenio Percossi:
“A 13 anni, già da 3, ero l’oggetto dello scherno del mio quartiere”, racconta Eugenio Percossi”, erano gli anni ’80 fra le montagne del centro Italia. A 10 anni ero già il ‘frocio’ del villaggio anche se non sapevo cosa fosse, a 13 era quotidiana realtà sentirmi urlare ‘ricchione’. I bambinetti mi guardavano illuminati dal potere umiliante che sapevano di avere su di me. Sorrisini, allusioni, sguardi di intesa che si concludevano con risate sguaiate. Ridevano, ridevano e faceva male, ma sempre meglio di quando la loro gioia diventava urla: ‘ricchione’, ‘frocio’. Alle medie un professore nuovo disse che nella nostra classe ci fossero poche ragazze, solo 6 ragazze. Silvia si alzò e disse: ‘no, siamo 7, c’è pure Percossi’. Alla gita di terza elementare i ragazzi strillavano che con me non ci volevano dormire. Passavo la mia vita riducendo al minimo il contatto con le persone anche perché spesso, chi in privato mi era amico, in pubblico si schierava con la massa di chi si divertiva nel vedermi a disagio, con la testa bassa. Sopravvivevo, perché non avevo la forza di lottare. Ma la mia più grossa paura era che i miei genitori venissero a sapere tutto ciò perché la loro cultura mi aveva fatto ben presupporre che lo sbagliato ero io, non gli altri”.
“Tenere lontani i miei genitori dal mondo dei miei coetanei era un lavoro faticoso e doloroso”, prosegue, “un incubo ad occhi aperti. E la solitudine era l’unico ristoro, la fantasia il mio spazio, le lacrime la mia consolazione. Le lacrime e non il pianto, perché se avessi pianto i miei genitori mi avrebbero sentito. Loro non si capacitavano di come stessi crescendo. Non amavo gli sport collettivi ma quelli individuali, il nuoto soprattutto. Perché non esci? Perché non hai amici? Mamma mi mandava in continuazione a comprarle qualcosa dall’alimentari. Sotto casa c’era un bar con sala giochi dove come piranha i ragazzi aspettavano l’occasione di farsi due risate. Proprio sotto casa, non sarei potuto essere più sfortunato. Per andare a fare la spesa dovevo passare proprio lì. Era una tortura. Mentre mi deridevano con la coda dell’occhio guardavo su, il balcone di casa, sperando che né mamma né papà fossero lì. Passavo con la testa bassa, sperando non mi vedessero, ma ero un divertimento troppo sugoso per lasciarmi andare, per concedermi almeno qualche volta una tregua. Ho iniziato ad usare una strada alternativa, più lunga. Passare da lì non aveva alcun senso quindi controllavo il balcone prima di avviarmi. Il liceo fu una boccata di speranza presto delusa. Era lontano, molto lontano. Ci andavo in autobus ma l’autobus divenne il nuovo luogo delle torture. Dopo poche settimane ho iniziato ad andare a scuola a piedi. Partivo una mezz’oretta prima, era il prezzo che valeva la pena pagare. Un giorno del primo anno di liceo ci fu una terribile nevicata. Avevo fatto un pezzo a piedi ma non era piacevole muoversi affondando nella neve fresca ad ogni passo. Vedo avvicinarsi l’autobus e decido di prenderlo. Salgo e subito un paio di ragazzi riprendono i loro giochi perfidi che da un po’ avevo evitato. Sono tornato a casa, “mamma non mi sento molto bene” mi sono messo a letto e non mi sono alzato fino al mattino seguente”.
“Si a 13 anni pensavo già alla morte e ci pensavo spessissimo”, conclude Eugenio Percossi, “il vuoto sotto la mia finestra lo guardavo spesso ma poi mi sentivo un vigliacco perché non avevo il coraggio. Soffro di sindrome post trauma, mi ha detto lo psicologo. Io ho sorriso. Ma su via… è quella dei militari che hanno visto il peggio del peggio”.