Luco dei Marsi. La statua in terracotta della Dea Angizia, scoperta nel 2003 nel santuario italico a Luco dei Marsi e considerata patrimonio culturale di interesse internazionale, sta rappresentando la Marsica nella mostra “Tota italia. Dall’Italia preromana all’Italia romanizzata” allestita nelle Scuderie del Quirinale dal 14 maggio al 25 luglio.
La scrittrice Maria Assunta Oddi ha rielaborato in modo fantastico la storia dell’antica terra dei Marsi con una leggenda sul lago scomparso e la Dea Madre venerata come incantatrice dei serpenti e maga dagli occulti poteri.
CARO DIARIO,
Oggi vorrei farti un dolce regalo.
Non affliggerò con i miei dolori quotidiani, né renderò grigie di tedio le tue pagine loquaci con ricordi struggenti di amori passati. Nemmeno ti farò sorridere confidandoti paure bizzarre o episodi particolarmente briosi. Non ti affiderò segreti e so bene che sei il mio prezioso scrigno dei sogni. Niente di tutto questo. Per questa volta desidererei cullarti con le parole di un racconto scritto appositamente per te che da sempre mi sei legato da un’amicizia profonda.
Vorrei che un respiro tra le righe e l’inchiostro della mia biro ti permettesse una volta tanto di seguire solo la fantasia unica regola capace di farci sentire veramente liberi.
Immagina di essere il bianco di un foglio che liberato dai lacci della rilegatura voli come una foglia caduta pigramente da un pioppo in balia del vento senza sosta, ora più in alto, fino a toccare le nuvole, ora in basso quasi a sentire proiettata su di sé l’ombra umida della terra.
La storia prende inizio, affrettati ad entrare nel ruolo degli eventi che sto per narrarti. Ebbene ascolta. Gli alberi che crescono nel nostro paese si presentano belli, fronzuti, verdi con vari frutti tra i loro rami dove fanno il nido uccelli che volano cinguettando intorno ai loro rifugi.
Devi sapere, caro diario, che le ridenti cittadine marsicane erano anticamente lambite dalle acque di un lago che, calme e abbondanti, rilucevano il sole come ai primi raggi della luna con riverberi azzurrognoli. Intorno ad esse si specchiavano superbe le cime bianche del Velino, i torrioni dei castelli, le colonne dei templi le mura ciclopiche, le greggi, i prati e le barche dei porticcioli.
Al limite del lago, in un bosco sacro, viveva una maga di nome Angizia. Era di una bellezza così affascinante da riuscire a far innamorare perdutamente di sé, chiunque la guardasse nello stesso tempo possedeva dei poteri particolari che la rendevano capace di interrogare le stelle e gli astri sul futuro degli uomini.
Indossava una tunica di damasco ma aveva le braccia e le gambe nude. Il piede scalzo e bronzato gli dava l’andatura di una fuggita chissà per quale motivo, dall’Olimpo. Gli occhi verdi rilucevano sulla pelle d’alabastro mentre lunghi capelli neri, che cadevano copiosi sulle spalle, intrecciati insieme da fermagli di pietre preziose, profumavano di viole.
Quando le acque si addormentavano sotto la bianca luce dell’astro notturno, talvolta soleva danzare nei luoghi riservati alle cerimonie per propiziarsi i favori degli dei silvestri. Di giorno, quando gli uomini del paese erano al largo per la pesca, scendeva all’abitato per ascoltare il canto delle pastorelle e delle lavandaie. Si divertiva, inoltre, a rispondere, seduta su una roccia, all’eco chiassoso delle risa dei bimbi che guerreggiavano simulando antiche battaglie tra gladiatori. Purtroppo ben presto, la sua notorietà di oracolo eccelso la rese così superba da fargli rifiutare la vicinanza della gente semplice. Circondò le mura del suo tempio di rovi dove vivevano schiere di serpenti che impedivano il passo a qualsiasi essere vivente.
Chiusa nel segreto della grande foresta, in compagnia dei silenzio, assorta in pensieri solitari, finì con il non accorgersi nemmeno della primavera che tornava con i fiori e il canto dell’allodola. Piano, piano, essere così lontana dalle gioie e dai dolori dei suoi simili la rese infelice e più cresceva la sua inquietudine più diventava insofferente di tutto e di tutti. I giorni passavano e il dolore diventava sempre più insopportabile. Nonostante i suoi crucci, la vita nel paese continuava indisturbata. Ogni mattino le donne si recavano a fare il bucato sulle rive del lago, mentre gli uomini uscivano con le barche a pesca di lucci, trote, tinche e carpe. Dove le acque del lago si facevano più rade, tra le canne degli acquitrini si acquattavano a frotte le rane che a sera univano il loro gracidare allo stridio dei grilli delle campagne quasi a far più liete le ore del riposo.
Sui monti i bimbi in festa occupati da mille giochi, raccoglievano frutti e bacche selvatiche o vigilavano le greggi opulenti brucare i pascoli verdi. L’amore trionfava tra i giovani sposi che la misera vita di pesca e pastorizia univa con affetto sincero e profondo. E lei, Angizia, dall’alto della sua reggia osservava silenziosa e intanto sentiva crescere la sua rabbia. Il sentimento dell’invidia che si era anni dato nel suo cuore come le serpi tra i rovi, gli suggeriva strane cose: “Non hanno nulla che possa renderli agiati, vivono miseramente in capanne di paglia e fango, vestono abiti spenti nei colori e rozzi nei tessuto, parca è la loro mensa eppure sono cosi felici del presente che non si preoccupano del loro futuro. Mentre io, qui nella mia residenza regale, bella, ricca, prediletta tra Lussi e piaceri vivo senza amore terreno”.
La maga terminò le sue riflessioni ed ad alta voce confessò: “Ma se il lago si prosciugasse e improvvisamente perdesse le sue acque, questo si che varrebbe a mutare la loro vita. Cosa farebbero i pescatori senza il lago dove poter pescare? Come potrebbero sposarsi e avere figli senza sostentamento? Come potrebbero crescere frutti selvatici ed erbe abbondanti senza il tiepido vapore del lago? Terminò il suo monologo ad alta voce esclamando: “Ecco, ho finalmente capito cosa fare. Chiederò aiuto a mio cugino, re dei fiumi, Mago Liri, affinché una volta per tutte inghiotta le acque del lago.” Poiché la Maga aveva la capacità di piegare ogni volontà, anche la più tenace, ai propri desideri, invitò il cugino ad un sontuoso banchetto e poi lo costrinse ad accettare i suoi propositi.
Il mago Liri incapace di opporsi ai poteri occulti di Angizia ingrossò le gote e con un soffio gelido, trattenendo il respiro, ingoiò il lago che entrò nelle sue fauci come un vorticoso torrente. Quando, al sorgere dell’alba, le donne si recarono con le ceste sul capo a fare il bucato non trovarono l’acqua e così anche i loro uomini tornarono a casa a mani vuote.
Quando giunse l’inverno il freddo gelò gli oliveti e i vigneti e fece ingiallire l’erba dei prati che non erano più capaci, ormai inariditi di nutrire le numerosi greggi. Tutti nel villaggio uomini, donne, vecchi e bambini patirono per mesi e mesi la fame. Nella valle tacquero i canti dei pastori e la tristezza s’impadronì di ogni animo. I ragazzi perduto il desiderio di ogni svago restavano silenziosi e stupefatti a pensare al lago scomparso. Il mago vedendo tanta sofferenza poiché aveva il cuore tenero e generoso copri la terra liberata dalle acque di un terriccio fertile che egli prese dal letto dei fiumi in piena. Il limo prezioso in poco tempo trasformò la conca che prima era la culla del lago in una valle rigogliosa che fece dei pescatori abili contadini. Agli oliveti si sostituirono piante di nocciole, castagni, querce, campi di frumento e di mais. Una ricchezza nuova veniva data a questa gente che seppe assaporare tutta la bontà dei frutti della terre del proprio lavoro. Poiché il Mago Liri non riusciva a dimenticare le antiche sciagure che aveva procurato ai pescatori prosciugando il lago, volle vendicarsi e con uno stratagemma si fece invitare nella reggia della Maga Angizia.
Le portò in dono una perla chiamata “Occhio d’argento” capace di imprigionare lo sguardo di chi la guardasse. Quando Angizia aprì la conchiglia che racchiudeva il dono non riuscì più a distogliere lo sguardo della perla.
Il mago Liri, allora libero da ogni potere maliatico trasformò la bella donna in un seme di pioppo con queste parole: “Ti affiderò al vento che sarà il confidente dei tuoi ricordi e delle tue sensazioni. Assaporerai il dolore e lotterai duramente per vivere. Solo quando diventerai saggia ti sarà concesso tornare nel mondo magico delle fate”.
Caro diario, ti sembrerà impossibile, che a questo punto della narrazione ti confidi qualcosa che aggiungerà mistero al mistero: a raccontare la sua bellissima e commovente storia è stata la stessa Maga Angizia. Infatti, mentre sedevo a leggere accanto ad un pioppo, nella piana del Fucino, il vento fece del fruscio delle foglie una voce di donna: “Io, la più grande maga che mai memoria d’uomo ricordi, ero diventata un piccolo seme attaccato alla vita da una forza sovrannaturale. Attesi con trepidazione la prima pioggia per mescolarmi alla terra e rendermi invisibile; poi, dolcemente, m’aprii, e uscì da me una radichetta bianca e tenera.
Ma che terra magra mi stava attorno! Patii la fame e credetti proprio di dover morire quando la mia radichetta trovò la dura roccia. Pensa una tenera radice alle prese con una roccia per la quale ci sarebbe stato bisogno dello scalpello. Eppure prodigio tra prodigi la radice intaccò anche la roccia e intanto un fusticino debole usciva verso il sole e su di esso spuntavano le prime foglie. Ma la mia vita non era facile.
Dovetti lottare, d’inverno, col ghiaccio. Il ghiaccio è terribile. Stringe come una morsa e soffoca. Più dolce invece è la soffice neve che ti copre col suo candido manto. D’estate la mancanza d’acqua è tormentosa! Beati coloro che possono andare in cerca delle fonti e scendere in riva ai fiumi. Io ero inchiodata, immobile per un crudele incantesimo. Chiusa nel tessuto legnoso ho dovuto combattere col vento. Vedi come i miei rami sono contorti? Sai quanta forza c’è voluta per resistergli”.
Quando la voce del vento si stemperò nell’aria mi ritrovai sola con i pensieri tristi e melanconici. Che pena aveva suscitato in me quel racconto! E quanto strazio emanava quell’albero che albero non era.
Senza che me ne rendessi conto iniziai a piangere e allora la voce riprese: “Non piangere! E’ vero che la mia nuova vita da piccolo seme è stata una continua lotta ma ho avuto. anche dei momenti di gioia, quando, per esempio, sento che le mie gemme al tepore primaverile, stanno per schiudersi e le foglie novelle brillano di rugiada, quando gli uccelli vengono a posare i loro nidi sui miei rami cantando finché non giunge il buio; quando qualche viandante si sofferma alla mia ombra e mi benedice; quando infine, piove e le gocce d’acqua scendono su di me con l’armonia di mille note”. Le parole ascoltate con tanta attenzione non riuscirono ad allontanare dal mio cuore in pena quella struggente malinconia e allora fra i singhiozzi sussurrai: “È troppo atroce quello che ti è accaduto. Nessun’anima per quanto malvagia merita di essere imprigionata in una ruvida corteccia. Dimmi cosa posso fare per liberarti”. La voce riprese con una dolcezza particolare: “Dovresti sapere che confidare un dolore ad un amico aiuta a liberarsene. Ascoltando le mie angosce mi hai reso felice come solo gli esseri umani possono esserlo. Il dono dell’affetto ha rotto l’incantesimo. Tra poco tornerò nel mondo delle fate”.
Un telone di montagne aveva fatto da scenario all’insolito dialogo. Già il sole aveva vinto le nuvole e vibrava superbo i suoi raggi nell’ampiezza libera della valle.
All’improvviso, caro diario, non credevo ai miei occhi, vidi una nebbia fitta spandersi sulla luce solare e su di essa scorsi, per un attimo, come un velo variopinto, la figura di una bellissima donna bruna. Non so se fu l’immaginazione o qualche gioco ottico, è certo che mi sentii liberata da ogni tristezza mentre una sensazione di pace mi invase. Quando da oltre il fossato, mi giunse il rombo cupo del trattore all’aratura capii che il sogno era svanito.
A presto insostituibile amico, un bacio dalla tua Giuseppina.